Milano 10 febbraio 2010

La riflessione di ieri aveva per tema l’attuale contesto socioculturale con la sua enfatizzazione della riuscita e del successo. Abbiamo parlato anche delle nefaste ricadute sugli individui della contrapposizione tra “il possibile e l’impossibile” che ha sostituito il conflitto tra “permesso e proibito” della prima parte del ‘900. Si diceva anche dell’illusoria inflazione di un IO cui si fa credere che tutto può e che nel suo isolamento narcisistico non sa più aprirsi agli altri. In relazione con questo, è interessante il risultato di una ricerca dell’Università del Surrey riportato nel libro dell’analista junghiano L. Zoya dal titolo molto esplicito: “La morte del prossimo” (Einaudi). E’ stata fatto una comparazione tra un gruppo di 39 manager di successo con criminali e pazienti psichiatrici gravi, caratterizzati da mancanza di scrupoli, di responsabilità, di sensi di colpa, tendenza alla menzogna, alla manipolazione e al cinismo. La classificazione finale ha diviso i soggetti esaminati in “psicopatici di successo” (i manager) e in “psicopatici senza successo” che sono i criminali e malfattori classici. Riferendosi a questa ricerca, il filosofo e psicanalista U. Galimberti si chiede se la stessa crisi economica che stiamo attraversando non sia stata generata dal fatto che si è persa la nozione di “prossimo”. E ogni senso di solidarietà e compassione, malgrado i duemila anni di cristianesimo. Comprare, vendere, amministrare, finanziare, speculare, governare, licenziare, corrompere, non sono diventate azioni lontane dai concreti esseri umani e quindi lontane dal rispetto che per gli esseri umani si dovrebbe avere? E quando le vittime sono più lontane e virtuali non si è più tentati dal crimine e dall’immoralità? E anche dalla guerra? La pubblicità, il marketing, i sondaggi, non hanno persone ma numeri come obbiettivi. La tecnologia de-realizza e rende virtuali e irreali i rapporti che si contraggono via internet, anche l’amore diventa un’astrazione. Nelle configurazioni che stanno alla base della nostra società sembra che sia collassata la nozione di prossimo e che prevalga una patologica quanto illusoria corsa a perseguire solo il proprio interesse. Diceva il Vangelo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ma per salvarci dobbiamo tornare a chiederci “Chi sono io?” e “Chi sei tu?”, dobbiamo tornare a quella relazione di un Io reale con un Tu reale, di cui parlava M. Buber, bisogna tornare a dare un senso alla parola “amare”.