L’occhio del ciclone

Dal Libro: “Niente di Speciale – Vivere lo Zen”
di Charlotte Joko Beck, Ed. Ubaldini

 

 

 

 

La sicurezza è una superstizione. Non esiste in natura, e i figli dell’uomo nell’insieme non la conoscono. Rifuggire i pericoli non è, alla lunga, più sicuro che esporsi completamente. O la vita è un’avventura coraggiosa o non è niente. (Helen Keller)

Incominciamo con un koan tratto dalla Porta senza porta: l’uomo sull’albero, di Kyogun. (Il koan è una domanda paradossale non risolvibile con l’analisi razionale che alcuni maestri Zen assegnano ai loro discepoli per approfondire la meditazione.)

Il maestro Kyogun disse: “E’ come un uomo sospeso per i denti a un albero; le sue mani non si afferrano a nessun ramo, i suoi piedi non poggiano su nessun ramo. Supponiamo che, da sotto l’albero, un altro gli chieda: ‘Qual è il significato della venuta di Bodhidharma dall’occidente?’. Se non risponde è scortese con l’interrogante. Se risponde perde la vita. Che cosa deve fare?”.

Possiamo riformulare il koan chiedendo: “Qual è il significato della vita?”. Non rispondere è mancare alla nostra responsabilità, rispondere è perdere la vita.

Per accostarci meglio al koan, vi racconterò una storia. Anni fa vivevo a Rhode Island. Venne annunciato un tornado. Spostai la culla di mio figlio contro la parete e la coprii per ripararla da eventuali schegge se le finestre fossero andate in frantumi. Poi prendemmo altre precauzioni. Eravamo esattamente sulla strada del tornado, di enorme violenza. I vecchi, grandi alberi davanti alla casa si spezzarono e caddero. Il vento soffiava con raffiche di duecento, duecentoventi chilometri all’ora. Dopo tre o quattro ore, in pochi istanti tutto si placò. Il sole fece capolino e gli uccelli ricominciarono a cantare. Il vento cessò. Eravamo nell’occhio del ciclone. Dopo un’ora l’occhio si spostò, il vento ricominciò a infuriare e ci ritrovammo nella coda del tornado.

Benché non fosse brutto come prima, era sempre violento. Ci ritrovammo con tutto sottosopra.

In seguito mi dissero che quando un aereo si viene a trovare in un uragano, il pilota cerca di spostarsi nel centro del ciclone, nell’occhio del ciclone, per avere un momento di tregua dall’enorme tensione.

Quasi tutti noi siamo come l’uomo sull’albero o il pilota nel ciclone, tenendo duro e sperando di uscire dalla tempesta. Ci sentiamo sballottati dai colpi della vita. Può trattarsi di fatti naturali, come una malattia grave, o di difficoltà nei rapporti, che possono sembrare ingiusti. Dalla nascita alla morte siamo afferrati da questi turbini di vento, che di fatto sono la realtà della vita: una tremenda energia in moto e in cambiamento. Il nostro scopo è quello del pilota proteggere noi stessi e il nostro aereo. Non vogliamo rimanere dove siamo. Facciamo tutto il possibile per salvare la nostra vita e la struttura dell’aereo, per poter scampare all’uragano. C’è questa cosa tremendamente potente che chiamiamo la nostra vita e noi vi sediamo in mezzo nel nostro piccolo aeroplano, sperando di volare fuori senza danni..

Supponiamo che, invece di essere su un aereo fossimo su un aliante, senza il controllo e il potere che offre il motore. Siamo in balia del vento. Credere di uscirne vivi è follia. Eppure, dentro queste enormi masse d’aria, ci facciamo una bella corsa. Anche se c’è paura e terrore, può essere eccitante e gioioso come le montagne russe.


L’uomo che si aggrappa disperatamente all’albero è nella stessa situazione del pilota, cerca disperatamente di sottrarsi ai colpi della vita. Se gli si chiede: “Qual è il significato della vita?” , che cosa risponderà? Che cosa rispondiamo? Mentre viviamo, mentre sediamo in meditazione, cerchiamo di proteggere noi stessi. La mente che pensa, fantastica, è eccitata ed emotiva, che condanna gli altri e si vittimizza, è simile al pilota che cerca di uscire dall’uragano.

In questa vita di tensione e compressione, dobbiamo impegnarci al massimo solo per sopravvivere. Tutta l’attenzione è incentrata su noi stessi o sul quadro dei comandi, e tentando di metterci in salvo non vediamo nient’altro.

Invece il pilota dell’aliante può godersi tutto: i fulmini, la pioggia tiepida e il fischio del vento. Può passare momenti splendidi. E alla fine, cosa succede? Entrambi gli uomini muoiono, ovviamente. Ma quale dei due ha conosciuto il significato della vita? Quale ha conosciuto la gioia?

Come il primo pilota, anche noi passiamo la vita intera a proteggerci. Più siamo impegnati a proteggerci dai colpi della situazione attuale e più stress sentiamo, più stiamo male e meno sperimentiamo davvero la vita. Ossessionati dal quadro dei comandi, che presto o tardi invariabilmente smetterà di funzionare, ci perdiamo il paesaggio.

Nella meditazione possiamo osservare i nostri meccanismi protettivi osservando la mente.

Possiamo accorgerci di come giustifichiamo il dolore accusando i nostri problemi o gli altri.

Possiamo vedere gli sforzi implacabili quanto inutili di metterci in salvo. Sforzi che ovviamente non funzionano. Più ci sforziamo, più diventiamo tesi e irritati.

Un’unica cosa risolve il problema, ma nessuno vuole sentirla.

Pensate al pilota dell’aliante.

Vorremmo davvero essere al suo posto? Sin dal primissimo momento non ha la minima possibilità. E’ semplicemente lì per la corsa, la più grande corsa del mondo. La vita di ognuno è una corsa che termina inevitabilmente nella morte. Tentiamo l’impossibile per salvarci, ma non possiamo farcela. In realtà stiamo morendo in questo preciso momento.

Quanti minuti ci restano? Forse ci resta un minuto o forse cento, come al pilota dell’aliante. Non fa nessuna differenza, perché alla fine precipiteremo. Ma è il pilota dell’aliante, e non quello dell’aereo che saprà rispondere alla domanda: “Qual è il significato della vita?”. Il pilota dell’aliante lo scoprirà prima di schiantarsi, e probabilmente si schianterà gridando: “Wow!”.

Veniamo a praticare la meditazione, sperando di trovare dentro il ciclone della nostra agitazione, un piccolo occhio, un piccolo nirvana. “Da qualche parte dev’essere”, pensiamo. “Ma dov’è? Dov’è?” A volte ci imbattiamo in un piccolo spazio di quiete, di benessere. E tentiamo di afferrarlo. Ma è impossibile rimanere nell’occhio del ciclone. L’uragano avanza. Il nirvana non è trovare un luogo tranquillo dove rifugiarci per proteggerci da qualcosa o da qualcuno. E’ un’illusione. Nessuna cosa al mondo ci darà mai protezione: non il compagno o la compagna, non le situazioni e non i figli.

Il maggior impegno della gente è profuso nel proteggere se stessi. Se passiamo la vita alla ricerca dell’occhio del ciclone, viviamo una vita inutile. Moriamo senza aver mai vissuto realmente.

Non provo dispiacere per il pilota dell’aliante. Quando morirà, almeno avrà vissuto. Ma mi spiace per coloro che, accecando se stessi con i loro sforzi protettivi, non vivono mai. Stando con i nostri sforzi, ne vediamo la paura e l’inutilità. In una seduta di meditazione possiamo vedere gli errori con più chiarezza: non vogliamo vivere la nostra vita, vogliamo soltanto trovare l’occhio del ciclone, il luogo dove stare finalmente al sicuro.

Nessuno può sapere cos’è la vita, ma tutti possono sperimentarla direttamente. A noi esseri umani ci è stato dato soltanto questo. Ma non accettiamo il dono e non facciamo esperienza diretta della vita. Passiamo invece la vita a proteggerci. Quando l’impalcatura protettiva crolla, accusiamo noi stessi o gli altri. Elaboriamo vari sistemi per nascondere i nostri problemi, non siamo disposti ad affrontare direttamente il dolore della vita. In realtà, se l’affrontiamo direttamente, la vita è una bella corsa.

Ovviamente va benissimo stipulare un’assicurazione sulla vita e controllare che i freni della macchina funzionino. Ma, alla fin dei conti, neppure queste precauzioni ci salveranno. Prima o poi, tutti i nostri meccanismi difensivi falliranno. Nessuno può risolvere fino in fondo il koan della vita, anche se immaginiamo che il tal dei tali ci sia riuscito.

Biasimiamo gli altri perché pensiamo che debbano programmare esattamente la loro vita. Noi non lo facciamo, ma gli altri non possono permettersi di essere trasandati. In realtà, siamo tutti trasandati perché siamo tutti immersi nel gioco dell’autoprotezione invece che nel vero gioco della vita. La vita non è un posto sicuro. Non lo è mai stato e non lo sarà mai. Anche se troviamo l’occhio del ciclone per un paio di annetti, non possiamo farci troppo conto. Non esiste un luogo sicuro, né per i nostri soldi, né per noi stessi, né per le persone che amiamo. E preoccuparci di questo non è nostro compito.

Finché non avremo visto chiaro nel gioco che non può funzionare, non giocheremo al vero gioco. Alcuni non lo comprendono mai e muoiono senza aver vissuto. E’ un vero peccato. Passiamo la vita ad accusare gli altri, le circostanza e la sfortuna, pensando a come avrebbe dovuto essere la nostra vita. E così possiamo anche morire. E’ nostro diritto, ma è assai poco divertente. Dobbiamo aprirci al gioco immenso di cui facciamo parte. La nostra pratica dev’essere attenta, meticolosa e paziente.

Dobbiamo affrontare tutto.

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