Libertà e destino nella psicologia moderna
e nella saggezza dell’Oriente
Dal Libro: “Il Significato della felicità”
di Alan Watts, Ed. Ubaldini
Alan W. Watts (1915-1973), inglese di origine trapiantatosi in America nel 1938, è uno dei massimi esperti di teologia e problemi religiosi. E’ conosciuto soprattutto per i suoi studi sulla filosofia e la spiritualità orientali, in particolare, il Buddhismo e il Taoismo. Ha insegnato alle università di Cambridge, Cornell e delle Hawaii. Molti dei suoi libri sono stati tradotti in italiano, tra gli altri: La suprema identità, La saggezza del dubbio, Uomo, donna, natura, La gaia cosmologia, Om: meditazioni creative, Psicoterapie orientali ed occidentali, Il Libro, La via dell Zen, Il Significato della Felicità.
La Grande Liberazione
Coloro che cercano la felicità non la trovano, perché non capiscono che l’oggetto della loro ricerca è il cercatore. Noi diciamo che sono felici coloro che hanno “trovato se stessi”, perché il segreto della felicità sta nella massima antica: “Diventa ciò che sei”. Dobbiamo parlare per paradossi, perché pensiamo di essere divisi dalla vita e che, per essere felici, sia necessario unirci a essa. Ma siamo già uniti e tutte le nostre azioni sono le sue azioni. Non siamo noi che viviamo la vita, è la vita che vive noi. In realtà, tuttavia, non c’è un “noi” separato dalla vita che la vita possa “vivere”. Non è che siamo strumenti passivi della vita come credono i fatalisti, perché potremmo esserlo solo se fossimo qualcosa di diverso dalla vita. Quando uno pensa di essere diviso dalla vita e in guerra con essa, pensa di esserne lo strumento passivo, e così è infelice, condividendo i sentimenti di Omar Khayyàm:
Oh, Tu che l’Uomo dell’abietta Terra facesti
E’ il Serpente escogitasti con l’Eden;
Per tutto il Peccato che offusca la Faccia dell’Uomo
Da’ – e prendi – il Perdono dell’Uomo!
Ma, in verità, azione e passività sono uno e medesimo atto, e la vita e noi siamo un unico e medesimo essere. Questa verità della filosofia antica supera i limiti della nostra logica, ma chi la comprende è un savio e chi non la comprende è uno stolto. Ma, fatto abbastanza curioso, lo stolto diventa savio lasciandosi libero di essere stolto; allora la sua gioia non conosce confini ed egli “cammina libero per l’universo intero”. Questo si potrebbe chiamare la complessità del semplice. E questa, senza l’uso di termini tecnici, è la risposta della saggezza orientale al più duro problema del pensiero occidentale – il problema del destino e del libero arbitrio.
DESTINO E LIBERO ARBITRIO
Inevitabilmente la ricerca della libertà spirituale ci porta a questo venerando enigma. Infatti, si chiederà, l’accettazione totale della vita come l’abbiamo descritta, non è forse la forma più completa di fatalismo? Non sta forse a significare l’enorme senso d’irresponsabilità che sorge dalla consapevolezza che non solo i nostri atti e le nostre condizioni, ma anche i nostri stessi pensieri e sentimenti sono atti della vita o del destino – e che quindi possiamo anche cessare di preoccuparcene? Se questo è vero non implica anche che coloro i quali persistono nella palese schiavitù e miseria, quanto mai reale, del negarsi all’accettazione, credendo nel libero arbitrio e inorgogliendosi delle loro egoistiche facoltà, sono in realtà incapaci di sperimentare quell’accettazione, in quanto la loro credenza nel libero arbitrio è un decreto stesso del destino? Quando la filosofia orientale dice che tutte le cose sono Brahaman, l’intellettualismo occidentale non sa resistere alla tentazione di applicare l’etichetta del fatalismo. La ragione è che non abbiamo saputo risolvere il problema del circolo vizioso, di cui il determinismo o fatalismo è la definizione filosofica. Il circolo vizioso è l’impotenza dell’uomo; non si risolve fintantoché la percezione della nostra impotenza come uomini può trovare il suo complemento nella nostra onnipotenza come Dio. Questo è il punto in cui il fatalismo precipita nella libertà. Fatto abbastanza curioso, pochi filosofi hanno avuto il coraggio di essere dei fatalisti coerenti, perché quella dottrina contiene uno strano paradosso. Il fatalismo è la dottrina dell’assoluta sottomissione dell’uomo al destino, ma gli si oppone sempre una strana obiezione: “Se tutti credessero che i loro pensieri e le loro azioni siano inevitabilmente preordinati dal destino, allora si comporterebbero esattamente come a loro piace”. In altre parole, diventerebbero pericolosamente liberi!
L’accettazione totale, come l’abbiamo descritta, si avvicina molto al processo di portare il fatalismo al punto in cui diventa libertà assoluta. Ma contiene un fattore in più, che protegge il processo dai suoi pericoli e ne fa qualcosa di più di una mera proposizione filosofica. Ma prima dobbiamo considerare il problema del fatalismo nel suo senso puramente filosofico. Logicamente la posizione dei fatalisti è inattaccabile; secondo il loro ragionamento, una data causa non può avere che un effetto e non ci possono essere attività della mente umana che non siano l’effetto di una causa. Di conseguenza, tutte le volte che ci troviamo a scegliere fra diverse azioni, la nostra decisione è determinata non da un libero atto della volontà ma dagli innumerevoli fattori che costituiscono il nostro essere in quel momento – impulsi ereditari, riflessi istintivi, educazione morale e mille altre tendenze che ci portano verso una scelta particolare con la stessa inevitabilità con cui una calamita attira un ago che si trovi nel suo campo. Un atto di scelta sarebbe libero, se fosse fatto senza movente, perché i nostri moventi sono il risultato del condizionamento passato. Ma movente è solo un altro nome per causa e un’azione senza una qualche causa è impossibile. Così abbiamo una catena di cause ed effetti, in cui ciascuna causa è un effetto e ciascun effetto è una causa, ciascun anello di questa catena può avere solo due anelli particolari ai due lati, davanti come causa e dietro come effetto. Perciò l’ultimo anello della catena è predeterminato dal primo.
Con la prima Argilla della Terra impastarono l’Ultimo Uomo
E poi seminarono il Seme dell’Ultimo raccolto:
Sì, il primo mattino della Creazione scrisse
Ciò che l’Ultima Alba del Giudizio leggerà.
LA LIBERTÀ DAL DESTINO
Tuttavia, a rigor di termini, ciò equivale alla fine a una prova del libero arbitrio, ma un libero arbitrio più formidabile di quello mai contemplato dai sostenitori di quella dottrina. Infatti, se ciascuno dei nostri atti è determinato dall’intera storia precedente dell’universo, se il sole, la luna, i pianeti e le stelle concorrono al battito di un ciglio, ciò significa che noi, a nostra volta, usiamo il loro potere in tutte le nostre azioni. Infatti la dottrina del fatalismo, da un certo punto di vista, equivale quasi all’atto di Dio di dare all’uomo carte blanche nell’usare il Suo potere nel modo che Gli aggrada. Oggettivamente può essere vero che in un universo determinato il fatalismo ci dia tutto fuorché il potere di agire come ci aggrada, ma le questioni puramente oggettive hanno poco o nessun significato diretto per gli esseri umani, quando si toccano le cose veramente importanti della vita, ed è un truismo che i freddi fatti non abbiano alcun significato a parte quello che noi diamo a essi. Di regola, i fatalisti sono coloro che cercano di capire la vita in termini di valori strettamente razionali e oggettivi. (I “valori oggettivi” hanno probabilmente tanta realtà quanta ne hanno i colori cubici). Ma, se il determinismo è un freddo fatto, il suo significato dipende interamente dall’atteggiamento soggettivo che assumiamo verso di esso, ed è raro che il razionalista abbia il coraggio di accettare il suo potere di liberare o un pessimismo così abietto da assumere l’altro atteggiamento e dire con Andrejev:
Maledico il giorno in cui sono nato. Maledico il giorno in cui morirò. Maledico tutta la mia vita. Tutto getto sulla tua crudele faccia, insensibile Fato! Maledetto! Maledetto in eterno! Con le mie maledizioni ti vinco. Che cos’altro puoi farmi? … Con il mio ultimo pensiero ti griderò nelle orecchie d’asino: Maledetto! Maledetto!
Ma anche sul piano oggettivo non consegue che il determinismo ci privi della libertà, perché nessun metafisico o scienziato occidentale ha ancora deciso quale sia l’esatta differenza tra l’anima dell’uomo e il destino.
La filosofia orientale è chiara su questo punto e per questo motivo non ha mai trovato scogli nel problema del rapporto destino-libero arbitrio. Il Vedanta dice che l’anima dell’uomo è Brahaman, il che significa che il nostro sé più profondo è quella Causa Prima che mette in moto la ruota del destino. Tuttavia il Vedanta non condivide la nostra ordinaria concezione del tempo, perché solo dalla posizione della Maya (illusione, apparenza) la Causa Prima era una cosa del passato. In realtà, la Causa Prima è sempre ora. Noi parliamo dell’inizio e della fine dell’universo in termini di cicli cosmici, kalpa ed età semplicemente perché l’intelletto umano non sa cogliere la natura dell’eternità se essa non gli si dispiega sul metro del tempo. Ma per il filosofo orientale la creazione e la distruzione dell’universo avvengono in questo momento e per lui questo è vero tanto dal punto di vista metafisico quanto da quello psicologico. Non è nostro intento addentrarci nel primo, perché è completamente al di fuori dell’esperienza quotidiana, e non ha da dare alla soluzione dei problemi umani immediati più di quanto posso dare la visione scientifica od oggettiva.
In termini di psicologia pratica direi che questa concezione metafisica dell’Oriente è uno stato mentale in cui il rapporto fra il proprio sé e la vita, il fato o il destino non è più una questione di mosso e motore, di agente passivo e potere attivo. Perciò comporta un cambiamento della visione della vita in cui l’uomo è un essere isolato senza alcun senso di unione o positivo rapporto fra se stesso e il resto dell’universo, quale esiste esteriormente e dentro l’anima. La libertà spirituale, in questo stato, non è evidente perché l’uomo come unità isolata non ha alcun significato, esattamente come il dito senza la mano e la mano senza il corpo non hanno significato. Una vita senza significato non è che infelicità, e questa mancanza di significato si ha tutte le volte che la visione della vita dell’uomo non è intera, tutte le volte che l’uomo si vede come una creatura i cui desideri e la cui stessa natura umana non hanno un rapporto positivo con l’universo.
In questa visione non siamo che i capricci del fato che possono trovare la salvezza nel lasciarsi andare alla deriva sul mare del caos o lottare per tutto ciò che possono prendere. L’uomo non potrà mai capire la sua libertà finché si considererà un semplice strumento del fato o limiterà la sua libertà a tutto ciò che il suo Io può fare per strappare dalla vita le cose che più desidera. Per essere libero l’uomo deve vedere se stesso e la vita come una totalità, non come potere attivo e strumento passivo ma come due aspetti di una singola attività. Pertanto l’esperienza dell’uomo diventa intera quando egli vede l’attività della vita come una totalità in se stesso quale è ora, quando vede chiaramente che non c’è alcuna differenza tra i suoi pensieri e le sue azioni, quali sono in questo momento e la natura dell’universo. Non è che la vita lo faccia pensare e muovere come si tirano i fili di una marionetta; è, piuttosto, che i pensieri e le azioni dell’uomo sono contemporaneamente le sue creazioni e le creazioni della natura impersonale. La volizione dell’uomo e l’attività della natura sono due nomi per un’unica e identica cosa, perché i fatti della vita sono i fatti dell’uomo e i fatti dell’uomo sono i fatti della vita.
DUE COME UNO
Qui non si tratta di sapere quale sia il motore e quale il mosso, perché l’uomo vive la sua vita grazie allo stesso potere con cui la vita vive l’uomo. Ecco perché l’accettazione totale, che sembra una risposta alla schiavitù, è in effetti una chiave per la libertà, perché, quando accetti quello che sei ora, diventi libero di essere quello che sei ora, ed ecco perché lo stolto diventa savio, quando lascia se stesso libero di essere uno stolto. In verità, noi siamo sempre liberi di esseri quelli che siamo ora e solo il falso orgoglio ci trattiene dal rendercene conto. Perciò l’accettazione è insieme attività e passività; come passività è accettare noi stessi, i nostri desideri e le nostre paure come movimenti della vita, della natura e dell’inconscio; come attività è lasciare noi stessi liberi di essere noi stessi e di avere i nostri desideri e le nostre paure. Conseguentemente l’Io e l’inconscio, l’uomo e la natura, il proprio sé e la vita sono visti come due ballerini che si muovono in così perfetto accordo che è impossibile dire chi si muova e chi risponda, chi sia il compagno attivo e chi quello passivo. Questo sentimento di interezza è possibile averlo non solo in rari momenti di intuizione, ma anche nella vita di ogni giorno e ciò avviene appena ci rendiamo conto che tutte le nostre attività sono attività della natura e dell’universo tanto quanto l’orbitare dei pianeti, lo scorrere dell’acqua, il ruggire del tuono e il soffiare del vento.
Nell’intelligenza di ciò, procederemo liberamente e ininterrottamente come il vento. Ma la nostra libertà non ci gonfierà, se vedremo che la condividiamo con tutte le cose esistenti sotto il sole; perché, se ci sembrerà di poter acquistare e possedere la libertà, ci gonfieremo di orgoglio spirituale fino al punto di creparne. Perciò non si tratta di metterci ad arte in un certo stato mentale, perché la libertà non è diversa dallo stato mentale che abbiamo ora, e se ce ne rendiamo conto o ne restiamo ignari non fa alcuna differenza per la nostra libertà. Purtroppo non facciamo che interferire nei nostri stati mentali, quali appaiono di attimo in attimo, pensando che alcuni siano più vicini alla libertà di altri – cantando “A te più vicino o mio Dio” invece di “Mi accoglierai così come sono”. E’ proprio questa interferenza che scaccia il senso di libertà, perché l’orgoglio spirituale sta nel pensare che alcune creature e alcuni stati mentali siano più vicini a Dio di altri. Ora l’accettazione diventa amore quando ci mette in grado di vedere che Dio non si allontana da noi neppure quando siamo peccatori.
Ma solo mediante Dio l’uomo ha questa libertà? In altre parole, può realizzare la sua libertà solo nel momento in cui è predestinato a farlo e non prima? Questo interrogativo è stato un grosso enigma per i teologi, i calvinisti avendo preso l’idea della predestinazione e i cattolici, generalmente parlando, l’idea che l’uomo, pur non essendo libero di essere buono senza la Grazia di Dio, è nondimeno libero ogni momento di scegliere l’accettazione della Grazia. Cosi Berdjaev in La libertà e lo spirito:
Se la natura umana si fosse definitivamente pervertita e la libertà dello spirito definitivamente indebolita, nell’uomo sarebbe completamente assente la capacità di recepire la verità della rivelazione ed egli sarebbe insensibile alle operazioni della grazia. Ma l’uomo, quantunque ferito e rotto, rimane un essere spirituale e ha conservato la sua coscienza religiosa, perché la Parola di Dio non potrebbe essere indirizzata a un essere che ne fosse privo. La libertà nell’uomo precede l’azione della rivelazione e della grazia.
La risposta sembra confusa perché l’interrogativo è posto in modo sbagliato. Tanto la risposta calvinista quanto quella cattolica sembrano mancare il bersaglio per non saper riconoscere che l’atto dell’uomo di accettare la Grazia è identico all’atto di Dio di dargliela. La libera scelta dell’uomo non precede l’azione della Grazia né la segue, e non si può dire che l’iniziativa venga da una o l’altra delle due parti. I due atti avvengono simultaneamente perché sono due aspetti dello stesso processo: l’ascesa dell’uomo a Dio è la discesa di Dio all’uomo. I teologi sono confusi perché fanno una distinzione troppo netta fra Dio e l’uomo – una distinzione che, considerando il simbolo del Cristo, il Dio-Uomo, avrebbero evitato. Come disse sant’Atanasio: “Egli divenne uomo perché fossimo fatti Dio” (De Incarnatione Verbi). Perciò in termini cristiani, la discesa di Dio nell’uomo come Cristo è un simbolo storico di un evento eterno – un’unione fra Dio e l’uomo in cui nessuno dei due cessa di esistere (Cristo, infatti, era non meno uomo che Dio) e che compie la realizzazione di entrambe le parti contemporaneamente. Per dirla con Eckhart:
E’ come se uno si mettesse davanti a un’alta montagna e gridasse: “Ci sei?”. L’eco ripete: “Ci sei?”. Se uno grida: “Esci!”, l’eco risponde: “Esci!”.
L’eco segue il richiamo perché c’è lo spazio fisico fra l’uomo e la montagna, e perché la montagna non ha lingua e non può lanciare il richiamo e ricevere l’eco dall’uomo. Ma fra Dio e l’uomo c’è un’unione più stretta ed Eckhart dice che “l’occhio con cui io vedo Dio è lo stesso occhio con cui Dio vede me” (Discorsi di Meister Eckhart). La realizzazione non è predestinata a venire a un certo momento, perché la predestinazione è una mezza verità totalmente limitata. Può venire in qualunque momento, perché quella unione esiste eternamente. Il fato è solo l’altra faccia della libertà e possiamo dire che siamo destinati a realizzarla a un certo momento, solo perché scegliamo di vederla in quel momento.
Questo argomento, naturalmente, non piacere a coloro che concludono al fatalismo sulla base della causalità regnante nell’universo oggettivo. Costoro concluderanno che, sebbene il fatalismo possa forse darci un senso di libertà totalmente immaginario, gli eventi, nondimeno, accadranno solo nel loro tempo predestinato e così lo sviluppo di un senso di libertà sarà destinato come qualunque altra cosa. Questo tipo di fatalismo non tiene in nessun conto i possibili rapporti fra il sé dell’uomo e la “la causa del Fato” e dipende in gran misura dall’ordinaria concezione del tempo. La conoscenza fattuale di queste cose è, a dir poco, rudimentale e quindi non possiamo considerare l’argomento in nessun senso definitivo. Per di più la psicologia dell’inconscio è contraria al tipo inferiore di libero arbitrio (cioè la nozione teologica consueta) per diversi motivi, spiegando infatti le decisioni manifestamente libere dell’Io come “razionalizzazioni” degli impulsi inconsci. Ma qui non va più d’accordo con l’argomento della causalità, perché molti psicologi di questa scuola non ammettono che la causalità si applichi nell’ambito dell’inconscio. Dal punto di vista spirituale, però, gli argomenti puramente filosofici e scientifici sono irrilevanti; le premesse metafisiche che impiega, possono essere considerate “ipotesi di lavoro”; l’importante è che “lavorino”. Lo scienziato è il filosofo possono ragionare fino alla fine dei tempi, ma nel frattempo l’anima umana ha sete e lo psicologo, il sacerdote e il mistico hanno la temerità di suggerire che ci possono essere vie di approccio ai misteri supremi diverse dall’osservazione di laboratorio e dalla logica pura. Infatti, mentre lo scienziato e il logico dissezionano e analizzano, il mistico cerca il significato nell’intero.
In ogni attimo il mistico accetta la totalità della sua esperienza, includendovi se stesso qual è, le sue condizioni quali sono, e il rapporto fra l’uno e le altre qual è. Totalità è la sua parola chiave; la sua accettazione è totale ed egli non esclude nessuna parte della sua esperienza, per quanto ripugnante possa essere. E in questo scopre che totalità è santità e che santità è un altro nome per accettazione. E’ un uomo santo perché ha accettato la propria interezza santificando così ciò che egli era, è e sarà in ogni attimo della sua vita. Sa che in ciascuno di quegli attimi è unito con dio e che, santo o peccatore che sia, l’intensità di quella unione non cambia mai. Perché Dio è la totalità della vita, che include ogni possibile aspetto dell’uomo e si conosce nell’accettare la totalità di ogni momento.
Maggio 2016