Le Origini dell’Ansia

tratto dal libro: “Debellare il senso di colpa.
Contro l’ansia e la sofferenza psichica”,
di Lucio Della Seta, Marsilio Editore, 2005

    “Confusione nella testa, sgomento, difficoltà di respirare, batticuore, vertigini. E’ l’ansia, la regina delle sofferenze psichiche. Ma cos’è davvero e da dove viene?

    Il naturalista Linneo nel xviii secolo usò per primo il termine anxietas che, come “angoscia”, deriva dal latino angustia, cioè strettoia, riferendosi alla presunta difficoltà a far entrare l’aria nei polmoni. Ma per lui era una malattia organica a sé stante, e non uno dei sintomi di un costrutto unitario che noi oggi chiamiamo ansia.

    I medici dell’epoca di Linneo usavano altri termini, ma si riferivano sempre a vari sintomi dell’ansia che per loro erano, come per Linneo, altrettante malattie fisiche diverse. Queste presunte malattie venivano chiamate con nomi affascinanti, chiaramente riconducibili all’ansia e al panico: Panophobia, Vertigo, Palpitatio, Suspirium, Oscitatio, Palpitatio melancholica, Tremor.

    Da allora sono state fatte diverse ipotesi sull’ansia, ma tutte insoddisfacenti..

    Adesso, potendo collegare le antiche grandi intuizioni di William James (1884) con le straordinarie scoperte fatte dai ricercatori nelle neuroscienze che rivelano, fra l’altro, l’esistenza di una “memoria autonoma” dell’amigdala, la struttura cerebrale che elabora le informazioni di pericolo per l’incolumità dell’organismo, diventa possibile formulare nuove ipotesi.

    Cominciamo con un capovolgimento, e guardiamo all’ansia non più come causa di allarmi neurovegetativi (somatizzazioni), ma come effetto di alterazioni viscerali di origine ignota oppure ignorata. E’ come dire che non è l’ansia a provocare la tachicardia, ma un aumento improvviso e misterioso del battito cardiaco a provocare l’ansia.

    Partendo da questo presupposto si può arrivare a osservazioni rilevanti.

    Tutte le cosiddette “somatizzazioni”, tutte le alterazioni corporee che si accompagnano all’ansia, sono sempre esclusivamente le stesse alterazioni che si riscontrano nel nostro corpo quando ci troviamo a fronteggiare una minaccia alla sopravvivenza. Le reazioni neurovegetative associate all’ansia sono certamente quelle del nostro ancestrale meccanismo di difesa del corpo contro i pericoli fisici.

    Poiché il mondo è pieno di pericoli, l’evoluzione, nel corso di milioni di anni, ha programmato nel nostro organismo delle risposte automatiche al pericolo, che scattano da sole non appena percepiamo, con i cinque sensi, una minaccia alla nostra incolumità. Si tratta di risposte automatiche, fuori dal controllo dell’Io, ed è opportuno che sia così, perché se dovessimo essere noi a decidere cosa fare mentre un’auto sta per investirci, moriremmo di sicuro. L’insieme di queste risposte automatiche e autonome della volontà, in presenza di una minaccia alla nostra integrità fisica, trasforma il corpo, in millesimi di secondo, in una potente macchina di combattimento.

    Le risposte, infatti, portano a un assetto corporeo pieno di forza e di energia, adatto a fuggire o a lottare con successo e perciò tutto il sistema di difesa così congegnato si indica anche, brevemente, con l’espressione “fuggire o lottare”.

    E’ una reazione al pericolo così rapida che, di fatto contemporaneamente alla nostra percezione visiva di un animale pericoloso che ci minaccia, e prima di aver potuto ragionare, i bronchi si dilatano per rifornirci di ossigeno, il cuore si mette a battere velocemente per riempire di sangue i muscoli, le coronarie si allargano per agevolare il flusso del sangue, parte una scarica di adrenalina destinata a mantenere altissime l’attenzione e la vigilanza, l’intestino si contrae per disfarsi del suo contenuto che è un’inutile zavorra, la muscolatura si tende per passare all’azione. Si dilatano le pupille per migliorare la visione, c’è una costrizione arteriosa cutanea che fa rizzare peli e capelli per apparire più grandi e minacciosi all’avversario (sistema imitato dai soldati con spalline e colbacchi). Ci sono anche il sudore delle mani per afferrare meglio, sudore di tutto il corpo (come segnale olfattivo o come raffreddamento dell’organismo nel calore del combattimento?), il fegato rilascia zuccheri per aumentare l’energia e c’è un aggiustamento istantaneo dell’equilibrio a seconda del tipo di minaccia da affrontare. Sembra incredibile, ma ribadisco che tutta questa rivoluzione dell’organismo si produce in qualche millesimo di secondo.

    Ora è necessario fare nostra qualche nozione che viene dalla neurofisiologia.

    Le risposte automatiche al pericolo sono seguite di regola da un’azione volontaria quale lottare, fuggire o nascondersi, ed è logico, giacché risposte automatiche e azioni difensive sono un unico strumento di sopravvivenza. Ma cosa succede se le risposte non sono seguite da un’azione? Cosa succede se la grande energia accumulata per poter combattere non viene sfogata? Succede che noi percepiamo, sentiamo, avvertiamo le variazioni somatiche delle risposte che risuonano all’interno del corpo e raggiungono la coscienza nelle vesti di una tempesta neurovegetativa incomprensibile. Questo evento genera l’emozione di paura, ansia, panico. Di contro, quando le risposte sono seguite dall’azione non proviamo alcun turbamento emotivo. E’ esperienza comune che mentre si è ingaggiati in una lotta, o mentre si corre via per salvarsi non si avvertono emozioni, e questa è una dimostrazione di saggezza della natura, perché emozioni e ragionamenti sarebbero un pericoloso impaccio ai comportamenti automatici di salvezza. Ed è anche esperienza comune che quando le alterazioni dell’organismo, in genere, sono accompagnate da azioni in accordo con il compito da svolgere noi non le percepiamo. Quando un calciatore insegue la palla non avverte l’aumento del battito cardiaco, e quando facciamo l’amore non percepiamo il cuore che batte a centottanta pulsazioni al minuto, una velocità funzionale alla grande quantità di energia necessaria a svolgere quel gradevole compito. C’è anche il caso ambiguo in cui osservando un grosso serpente dietro il vetro dello zoo sentiamo il cuore che batte. Se corressimo via come vorrebbe una parte del nostro cervello, non lo sentiremmo.

    I cosiddetti paurosi, e gli ansiosi, se si trovano di fronte a incidenti, incendi, terremoti sono spesso i più coraggiosi e intervengono tra i primi per salvare gli altri, nonostante il pericolo reale che corrono. Sono entrati in azione e l’ansia che in genere li tormenta, scompare. Chiunque sia stato in guerra sa di non aver mai avuto paura durante il combattimento, ma solo prima e dopo.

    Studi fatti in Inghilterra negli anni quaranta hanno registrato la scomparsa dei nevrotici che, trovandosi in una situazione di pericolo fisico reale, non percepivano più le variazioni viscerali e quindi non avevano più l’ansia. Ansia che è puntualmente tornata dopo che pochi eroi della RAF inglese posero fine ai bombardamenti distruggendo l’aviazione tedesca.

    Se ne deduce, nell’insieme, che il meccanismo “fuggire o lottare”, se c’è un pericolo fisico concreto, fa bene il suo lavoro, non ci disturba e ci salva. Ma quando le risposte scattano “a vuoto”, cioè in assenza di un pericolo fisico ,allora emerge la sofferenza dell’ansia e del panico.

    Diciamo che le risposte automatiche al pericolo possono talvolta non essere seguite da un’azione. I casi possono essere tanti (per esempio, essere legati a un albero mentre un serpente si sta avvicinando, ma per parlare di ansia si deve trovare qualcosa di unico che sistematicamente faccia scattare delle risposte che non possano, a priori, essere seguite da un’azione. Questo ruolo appartiene al pensiero. Ogni pensiero di pericolo ha infatti la possibilità di innescare delle risposte automatiche destinate a restare inespresse, perché è impossibile battersi fisicamente con il contenuto di un pensiero. E’ vero, per esempio, che può essere un pericolo grandissimo non essere accettati da nessuno, perché si rischierebbe di morire di fame, ma basta avere il pensiero di essere inaccettabili, senza che sia vero, per far scattare le risposte. E il pensiero può anche essere subliminale, subconscio, inconscio (la sottolineatura è mia).

    Si può parlare di grossolanità del nostro sistema della paura, perché questo meccanismo di difesa e adattamento diventa spesso strumento di attacco contro se stessi soprattutto nel senso di colpa, che non è altro che il pensiero di essere inadeguati e sconfitti.

    Mi tuffo in mare in acque profonde per una nuotata. Sono distante cinque o sei metri dalla barca, quando vedo una pinna di pescecane. Mi salvo perché sono dotato di un meccanismo formidabile. L’occhio vede la pinna e, senza alcun ragionamento, divento di colpo una bomba di energia che mi permette di raggiungere la barca in tempo. In millesimi di secondo e senza che io lo percepisca, con una reazione automatica al pericolo fisico, il cuore ha accelerato grandemente il suo battito pompando abbondantemente quantità di sangue ai muscoli, per rifornirli del carburante necessario a farmi sviluppare la velocità di un campione olimpionico. E non ho provato nessuna emozione di paura. Non ho percepito il cuore che batteva forte perché il fenomeno era funzionale e adatto al pericolo.

    Ora sto prendendo il sole sdraiato comodamente e al sicuro sulla spiaggia. Mi viene in mente, oppure ne ho il pensiero inconscio, che ieri mi sono comportato male e ho fatto una brutta figura. Oppure, penso che la mia ragazza mi ha lasciato e sono solo, sconfitto, e ho un calo di autostima. Il mio cuore riprende a battere forte, come quando fuggivo dal pescecane; ma allora batteva senza che me ne accorgessi, senza che lo percepissi. Ora invece lo sento, il battito, ed è proprio questa percezione corporea improvvisa, inspiegabile, fuori luogo, sorprendente e senza finalità che mi provoca lo stordimento frastornante e sgradevole nella testa che è l’emozione di paura o ansia.

    Ogni pensiero di pericolo mette in moto un’inutile tempesta neurovegetativa per difenderci da un pericolo solo pensato, trasformando il nostro corpo in una macchina da combattimento che non possiamo usare. Oltretutto l’attivazione fuori luogo del meccanismo di difesa somatico, in caso di pericolo solo pensato, ci confonde e non ci permette di affrontare la situazione pensata, serenamente, con altri pensieri, come sarebbe utile e sensato per noi. Se, mentre siamo a casa in una situazione tranquilla, e stiamo studiando per un esame che dovremo sostenere domani, ci viene in mente che non abbiamo neppure aperto uno dei libri fondamentali per superarlo, scattano comunque dentro di noi le risposte automatiche di difesa dai pericoli corporei. Il solo pensiero di una minaccia al risultato di domani basta a innescare la reazione. E’ vero che l’esame è, in qualche modo un pericolo, ma è causa di grande e inutile sofferenza doverlo affrontare, oggi per domani, in quel modo, con uno sconvolgimento viscerale che genera panico. Qualunque studente capisce di che cosa sto parlando.

    Occorre ricercare a fondo e capire le cause del drammatico inconveniente, ma resta il fatto che, se aleggia in qualche modo il concetto di pericolo, non importa di quale natura, il cervello lancia il segnale di allarme rosso per la sopravvivenza della specie. E’ così, ed è un fatto verificabile da tutti. Molti, quando devono prendere l’aereo, sperimentano lo strano fenomeno per cui all’aeroporto attendono di imbarcarsi con lo stato d’animo di chi andava al patibolo. La mente, in preda al terrore, trascina fino all’aereo un corpo che sta cercando di correre via, come dimostra l’aumento del battito cardiaco, la tachicardia, reazione necessaria a irrorare di sangue i muscoli deputati alla corsa.

    Si deve fare ora un’osservazione molto rilevante. L’attacco ansioso dipende sì dallo scatenarsi “a vuoto” delle risposte che risuonano nell’organismo, ma la sua intensità dipende dalla sensibilità “propriocettiva” individuale. La sensibilità propriocettiva, e cioè il percepire le variazioni interne dell’organismo, non è uguale per tutti. Varia per ogni individuo, in grado minore o maggiore. C’è chi avverte anche un solo battito in più del cuore e chi non se ne accorge neppure se i battiti in più sono molti. Credo che, in buona parte, da queste differenze di percezione interna dipenda l’esser nevrotici, o “sani”: In parte però dipende dalla qualità e dall’entità dei pensieri di pericolo per l’immagine di sé. D’altra parte non ci può essere un’ansia, e forse nemmeno una grossa preoccupazione, che non sia preceduta da una sia pur minima alterazione corporea provocata dal meccanismo di difesa dai pericoli fisici.

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    Un attacco di panico è sempre la percezione cosciente, improvvisa e terrorizzante delle alterazioni che stanno avvenendo nel corpo per un pensiero subconscio di pericolo. Vengono erroneamente interpretate come morte imminente o come stare per impazzire. Il pensiero ha spesso a che vedere con stati d’animo di inadeguatezza, fallimento, sconfitta. E’ possibile, però, che quando il panico è legato all’agorafobia e alla claustrofobia, ci si trovi in presenza anche di un ancestrale terrore di trovarsi lontano dalla tana o di non potervi fare ritorno.

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    La quiete della mente si accompagna solo a una quiete alacre del sistema nervoso autonomo non disturbato dai tanti, inopportuni, interventi automatici del “fuggire o lottare”.

    Credo che avere presente come stiano le cose possa già essere terapeutico. La comprensione del meccanismo corporeo che genera i fenomeni ansiosi può permettere, a chi ne soffre, di capire cosa gli stia succedendo, consentendogli così di spezzare il circolo vizioso “ansia > mistero > paura > ansia”. L’ansioso, a questo punto, può anche cercare di individuare i ricorrenti pensieri di pericolo per l’immagine di sé che gli scatenano la tempesta neurovegetativa. Deve comunque sapere e capire che non sta correndo alcun pericolo per la propria salute, ma che sta soffrendo a causa della sua umana imperfezione psicofisica congenita, che è nel destino di tutti. Se la paura e il panico fossero dannosi per l’organismo la specie umana si sarebbe estinta da tempo. Sapere è importante. Arrivare alla conoscenza di un processo inconscio vuol dire portarlo sotto il controllo corticale, a contatto con la razionalità.

    A questo punto dobbiamo entrare in territorio ignoto, sul filo incerto delle ipotesi, nel tentativo di inquadrare il fenomeno dell’ansia in un contesto più ampio. E’ lecito provare a farlo, sentendosi comunque protetti da Claude Bernard, il padre della ricerca medica moderna, che diceva: “Le teorie non sono né vere né false, esse sono fertili oppure sterili”.

    Le risposte automatiche al pericolo scattano da milioni di anni in base a informazioni che ricevono dall’olfatto, dalla vista, dal gusto, dal tatto e dall’udito.

    Ma ora gli uomini si trovano in un punto della loro storia evolutiva in cui le risposte automatiche al pericolo scattano anche su informazioni che ricevono dal pensiero. Mi riferisco al tipo di pensiero che noi abbiamo attualmente, non a quello dei nostri predecessori arcaici del quale non sappiamo nulla ma che, con ogni probabilità, permane sordamente in noi. Noi oggi abbiamo un pensiero cosciente, un pensiero che sa di esistere, un pensiero fatto di parole che parlano dentro la nostra testa, e questo tipo di pensiero è padre, o figlio, o coevo, del linguaggio. Gli esperti datano la nascita del linguaggio tra i trentamila e i centomila anni fa. Si tratta di un lasso di tempo che per l’evoluzione è un’inezia e ci dice che il nostro pensiero è un neonato che appena vagisce, rispetto all’età, all’esperienza, al rodaggio e alla precisione dei cinque sensi. Per le risposte automatiche al pericolo il pensiero, o mente, è un sesto senso, ma molto approssimativo, incerto e confuso. Forse è in via di integrazione con strutture e funzioni cerebrali più antiche. Non sappiamo bene in che cosa consista la mente e come evolva, ma pensiero, mente, linguaggio sono la nostra gloria, fenomeni meravigliosi e unici tra gli esseri viventi. Un dono che fa di noi delle creature che creano. Un alberello appena piantato che, se l’evoluzione non cambierà strada, darà frutti inimmaginabili.

    Se le cose stanno davvero così, dobbiamo dedurne che l’ansia affonda le sue radici nell’intelligenza.

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