La ricerca del non-io tra psicologia e spiritualità
Dal libro di Mark Epstein: La continuità d’essere. Una psicologia positiva per l’Occidente, Ed. Astrolabio, 2002
Uno dei maggiori problemi dei meditatori occidentali è il fatto che la loro preparazione concettuale alla pratica della meditazione è generalmente insufficiente. Con la testa piena di idee freudiane e alle prese con problemi psicologici spesso non completamente risolti o addirittura ignorati, gli occidentali impegnati nella meditazione sono frequentemente sviati dalla propria confusione e dai propri desideri e conflitti.
Come ha detto il compianto insegnante tibetano Kalu Rimpoche: “Si dice che chi cerchi di meditare senza la comprensione concettuale di cosa stia facendo è simile a un cieco che stia cercando la strada in aperta campagna; una persona del genere può solo gironzolare senza sapere come scegliere una direzione anziché un’altra”.
Oggi esistono molti fraintendimenti comuni sul fondamentale concetto buddista di anatta, o non-io. Tanto per cominciare, molti nuovi meditatori scambiano il non-io con l’abbandono dell’ego freudiano. La nozione convenzionale secondo cui l’ego è ciò che modula le pulsioni sessuali e aggressive ha portato molti occidentali a equiparare erroneamente il non-io a una sorta di urlo primario in cui si raggiunge finalmente la libertà da tutte le costrizioni limitanti.
Il non-io è qui inteso come l’equivalente della potenza orgasmica di Wilhelm Reich, mentre l’ego viene identificato con tutto ciò che irrigidisce il corpo, offuscando la capacità di una catarsi piacevole o impedendo di sentirsi “liberi”. Questo punto di vista, diffuso negli anni sessanta, è ancora profondamente impresso nell’immaginazione popolare. Esso considera la via verso il non-io come un processo di disapprendimento, di abbandono dei ceppi della civiltà per tornare a una schiettezza infantile. Inoltre, tende a romantizzare la regressione, la psicosi e qualsiasi espressione disinibita dell’emozione.
Un altro fraintendimento popolare è che il non-io equivalga a una sorta di oblio dell’ego e al contemporaneo raggiungimento di uno stato di unità, fusione, identificazione con ciò che si trova al di là di esso: una condizione di trance o di unione estatica. Questa concezione ha solide radici – è quella influenzata dall’LSD – e si vale anche della tradizionale spiegazione psicodinamica.
Un amico di Freud, lo scrittore e poeta francese Romain Rolland, era un devoto seguace di Ramakrishna e Vivekananda. Sotto la sua influenza, Freud descrisse il “sentimento oceanico” come una sensazione di unità illimitata e senza confini con l’universo, che ricerca la “restaurazione del narcisismo illimitato” e la “resurrezione dell’impotenza infantile”. In tal modo, il non-io viene identificato con lo stato infantile precedente allo sviluppo dell’ego, cioè con quello del neonato al seno che non distingue tra se stesso e la madre, ma è immerso in un’unione simbiotica e indifferenziata.
Tale formulazione è complicata dal fatto che in meditazione sono davvero accessibili simili sensazioni di armonia, unità e perdita dei confini dell’ego; ma non sono questi gli stati che definiscono la nozione di non-io. Quando le pratiche di concentrazione su un unico oggetto vengono portate avanti con una certa perseveranza, conducono inevitabilmente a seducenti sensazioni di rilassamento e serenità. Tuttavia, la specifica strategia attenzionale del buddismo non è la concentrazione, bensì la consapevolezza o pura attenzione: “La chiara e semplice consapevolezza di ciò che accade a noi e in noi negli istanti successivi della percezione”. È questa pratica che negli stati avanzati concentra l’attenzione sul concetto del sé, sull’esperienza dell’«io» nel meditatore, conducendo alla comprensione del non-io.
Ma gli interpreti psicoanalitici, e i meditatori ingenui che hanno seguito le loro orme, hanno preso in considerazione solo le pratiche di concentrazione. Freud fu influenzato dalle esperienze di Rolland con la meditazione hindu. In realtà, un altro importante analista, Franz Alexander, studiò negli anni venti i testi buddisti appena tradotti in tedesco, ma anche egli considerò solo i passaggi che descrivevano la concentrazione. “In questa condizione il monaco è simile a uno stagno”, egli scrive, “che si colma e si imbeve completamente da ogni lato di sensazioni gioiose e piacevoli derivanti dalla profondità dell’assorbimento; in tal modo, nemmeno la più piccola particella resta non impregnata… Nessun analista può descrivere in modo più adeguato la condizione del narcisismo… È la descrizione di una condizione che abbiamo ricostruito solo teoricamente, definendola «narcisismo»”.
In anni più recenti, Herbert Benson, nel suo libro Relaxation Response, ha descritto la meditazione basandosi esclusivamente su resoconti di pratiche di concentrazione, e generazioni di meditatori hanno aspirato a dissolversi nello stagno di sensazioni estatiche che li avrebbe resi “tutt’uno” con l’universo o con il Vuoto. Ma il non-io non è un ritorno alle sensazioni dell’infanzia – un’esperienza di estasi indifferenziata o di fusione con la madre – anche se molte persone, quando cominciano a meditare, possono essere alla ricerca di una simile esperienza, e qualcuno potrebbe davvero imbattersi in qualcosa del genere.
Una terza e più interpersonale concezione del non-io suggerisce una sorta di soggiogamento del sé all’altro. È come se l’esperienza di fusione idealizzata venisse proiettata nelle relazioni interpersonali, in quella che i terapisti Gestalt hanno definito “confluenza” o perdita dei confini dell’ego tra una persona e l’altra. Il problema, qui, è che la realtà dell’altro viene accettata, mentre quella del sé è negata. Questa, in realtà, è una forma di masochismo camuffato.
La psicoanalista Annie Reich, in un classico studio sulla regolamentazione dell’autostima tra le donne, lo descrive benissimo. “La femminilità”, dice, viene spesso “equiparata all’annichilimento totale”. L’unico modo di recuperare la necessaria autostima è allora unirsi o fondersi con una persona idealizzata o posta su un gradino superiore, la cui grandezza o potenza può essere da lei incorporata. Per entrambi sessi, accade qualcosa di simile negli ambienti spirituali: la pressione a eliminare l’attaccamento al proprio ego genera una confusione tra la compassione che si suppone debba svilupparsi dal non-io (la cosiddetta bodhicitta) e questa primitiva super-identificazione con un’altra persona idealizzata.
I meditatori vittime di questo fraintendimento sono soggetti a una sorta di attaccamento erotico verso gli insegnanti, i guru o altri compagni, verso cui dirigono i propri desideri di lasciarsi andare in uno stato di “abbandono”. Molto spesso, essi rimangono anche masochisticamente avvinti a queste figure cui stanno cercando di arrendersi.
Un quarto comune fraintendimento, diffuso nei cosiddetti circoli transpersonali, deriva da un’errata interpretazione di importanti saggi di Ken Wilber e Jack Engler. Si ritiene, qui, che il non-io sia uno stato di sviluppo al di là dell’ego; che l’ego deve prima esistere per poi essere abbandonato. Questo è il rovescio della medaglia della credenza secondo cui il non-io precede lo sviluppo dell’ego: qui esso è visto come ciò che lo segue.
Tale approccio implica che l’ego è evolutivamente importante e che può in un certo senso venire trasceso o abbandonato. Qui siamo di fronte a un’infelice confusione lessicale. Il sistema cui fanno riferimento queste formulazioni è la psicologia psicodinamica occidentale dello sviluppo dell’ego. Ma all’improvviso avviene un salto, o slittamento, verso un lessico spirituale di impronta orientale, che dà la sensazione che l’ego formatosi è lo stesso che viene abbandonato.
Sentiamo, però, cosa dice il Dalai Lama a questo proposito: “Il non-io non è qualcosa che esisteva nel passato e ora non esiste più. Piuttosto, questa sorta di sé è qualcosa che non è mai esistito. Ciò che è necessario, è identificare come non-esistente qualcosa che è sempre stato non-esistente”.
Non è l’ego, nel senso freudiano, il vero bersaglio del discernimento buddista; è, piuttosto, il concetto del sé, la componente rappresentazionale dell’ego, l’effettiva esperienza interiore di se stessi, che viene presa di mira.
Secondo lo studioso buddista Jeffrey P. Hopkins, nella meditazione buddista occorre in ultima analisi “accertare puntualmente l’apparenza di un io sostanzialmente esistente”. Bisogna “scoprire come appare” nella propria esperienza, sviluppando una “chiara percezione dell’oggetto da negare”. È solo cercando e identificando i modi in cui pensiamo di essere intrinsecamente esistenti che possiamo smascherare l’infondatezza dell’autorappresentazione.
Ciò che viene trasceso, qui, non è l’ego intero. Piuttosto, l’autorappresentazione si rivela priva di esistenza concreta. Non si tratta di eliminare qualcosa di reale, ma di riconoscere una sostanziale infondantezza che è sempre esistita. Nelle parole del Dalai Lama, “Questo io apparentemente solido, concreto, indipendente e auto-istituitosi, in realtà non esiste affatto”.
I meditatori vittime di questo fraintendimento spesso si sentono obbligati a ripudiare aspetti critici del loro essere identificati con “l’ego corrotto”. Molto spesso la sessualità, l’aggressività, il pensiero critico e persino l’uso attivo del primo pronome personale vengono abbandonati, con l’idea che la rinuncia a essi equivalga al raggiungimento del non-io. Aspetti del sé vengono identificati come nemici e il meditatore cerca di prendere le distanze da essi. Ma le qualità identificate come corrotte sono, di fatto, rinforzate dal tentativo di ripudiarle!
Non è insolito trovare meditatori in terapia che insistono sul fatto di non aver bisogno di sesso o di un orgasmo, o che negano sentimenti di rabbia. Anziché adottare un atteggiamento di consapevolezza priva di giudizio, questi meditatori sono così intenti a lasciare andare i propri sentimenti che non sperimentano mai la loro fondamentale insostanzialità. In modo simile, chi è vittima di questo fraintendimento sul non-io tende a sopravvalutare l’idea della mente vuota priva di pensieri.
In questo caso, il pensiero stesso viene identificato con l’ego, e simili persone sembrano coltivare una sorta di vacuità intellettuale in cui l’assenza del pensiero critico viene vista come un risultato fondamentale. Robert A. F. Thurman descrive così questo fraintendimento: “Si confutano tutti i punti di vista, si rifiuta la significatività del linguaggio con la presunzione che, restando privi di convinzioni, senza opinioni, ignari di ogni cosa e dimentichi di tutto ciò che si è appreso, si dimorerà stabilmente nella via di mezzo e nel silenzio dei saggi”.
Un fraintendimento finale sul non-io è quello che lo considera un oggetto in sé e per sé, uno stato da raggiungere o cui aspirare. Qui è evidente il bisogno di identificare qualcosa come esistente, e la fiducia nella concreta esistenza dell’ego è trasferita, in un certo senso, nella fiducia nella concreta esistenza del non-io. Come dice Huang-po Hsi-yun, un maestro ch’an del nono secolo: “Esiste solo il vuoto onnipresente della reale Natura non-esistente di ogni cosa, nulla più.
Tutti questi fenomeni sono intrinsecamente vuoti, tuttavia questa Mente alla quale sono identici non è mero nulla. Con ciò voglio dire che essa esiste, ma in modo troppo meraviglioso perché noi si possa comprenderlo. È un’esistenza che è non-esistenza, una non-esistenza che nondimeno è esistenza”.
Il non-io non è, spiega Jeffrey Hopkins, una “vacuità del nulla” con una sua realtà. Esso viene scoperto in relazione a una credenza nell’esistenza intrinseca di un oggetto. È un riconoscimento che le apparenze concrete alle quali siamo abituati non esistono “nel modo che immaginiamo”. Il Dalai Lama una volta ha paragonato la realizzazione del vuoto a qualcuno che sapesse di portare degli occhiali da sole: l’alterazione stessa dei colori aiuta a ricordare che ciò che appare non è la realtà.
Nella realizzazione del non-io non scompare l’ego, ma viene abbandonata la fiducia nella sua solidità, l’identificazione con le sue rappresentazioni. “I pensieri esistono senza un pensatore”, sostiene lo psicoanalista britannico W. R. Bion, e questo è precisamente ciò che rivela il discernimento buddista. Ma questo discernimento non arriva facilmente.
È molto più facile usare la meditazione per fuggire dalla confusione su noi stessi, soffermandosi sulla tranquilla stabilizzazione che essa offre e ritenendo tutto ciò come un avvicinamento all’insegnamento del non-io.
Tuttavia, il fine ultimo della meditazione buddista non è il ritiro dal sé fittizio, bensì il riconoscimento del fraintendimento e quindi l’indebolimento del suo potere. “Se non si smette di prestare fede all’oggetto di questo fraintendimento”, ha detto Dharmakirti, “è impossibile cessare di fraintenderlo”. Esiste una profonda, tenace resistenza a questa disillusione, una sorta di attaccamento, di paura di un vuoto immaginato tanto reale quanto sembra esserlo il sé. Dice Huang-po: “Gli uomini hanno paura di dimenticare la loro mente, temono di precipitare nel Vuoto senza nulla che trattenga la loro caduta. Non sanno che il Vuoto non è realmente Vuoto, ma è il regno del dharma autentico”.
(Mark Epstein è uno psichiatra e psicoterapeuta. Praticante buddista da lungo tempo, è esperto di vipassana e tradizioni tibetane.)