Attacchi di panico e respirazione
di Giovanna Visini
Filippo Falzoni Gallerani, che ha sviluppato in Italia la scuola di Rebirthing Transpersonale, sostiene, già da molti anni, la relazione che esiste tra gli attacchi di panico e le alterazioni della respirazione (vedi il suo libro Rebirthing Transpersonale Ed. Rusconi 1996).
Recentemente, ricercatori dell’Ospedale San Raffaele di Milano hanno confermato le convinzioni del dott. Falzoni, basate sulla sua esperienza più che ventennale circa l’efficacia del respiro per risolvere questo disturbo. Dopo dieci anni di ricerca, al San Raffaele hanno stabilito che i soggetti che soffrono di panico manifestano una reazione all’eccesso di anidride carbonica. La soluzione proposta è quella di utilizzare un farmaco per inibire i ricettori cerebrali dell’anidride carbonica, come cura “momentanea e sintomatica”.
Il dott. Falzoni, nel brano Gli attacchi di panico e il Rebirthing (che potete leggere sul sito www.rebirthing-italia.com) sottolinea i limiti dell’approccio medico tradizionale: “Non si tiene conto di molti fattori, come il fatto che l’eccesso di anidride carbonica dovuta a una cattiva respirazione è spesso associata a emozioni trattenute e blocchi energetici (…); inoltre non sono neppure approfonditi i meccanismi dell’iperventilazione (che nelle sue prime fasi, ad esempio, provoca un momentaneo aumento dell’anidride carbonica e successivamente un suo abbassamento)”.
Nel libro citato, Falzoni chiarisce la relazione tra attacco di panico e respirazione: “Al contrario di quanto si era creduto, [l’attacco di panico] non consiste in un’espressione acuta d’ansia, ma in un disturbo a sé stante. In anni di pratica, si è costatato che le sensazioni scatenanti i casi di panico avevano molti punti in comune con quelle indotte dall’iperventilazione, e che esisteva un’evidente relazione tra gli attacchi di panico e le alterazioni del respiro. Si è notato che gli stessi sintomi dell’iperventilazione (capogiro, formicolio alle mani, timore di perdere il controllo emotivo, respiro affannoso, oppressione, vertigine, paura ed eventuale tachicardia) sorgono con estrema facilità in coloro che, senza esserne coscienti, si trovano in condizione di subventilazione. Per questi soggetti è sufficiente un breve periodo di tensione psicologica per indurli all’irrigidimento muscolare che inibisce la respirazione completa e, dopo un certo tempo che il soggetto respira al di sotto di una soglia ottimale, è predisposto a fenomeni di “iperventilazione spontanea” ogni volta che si trova in circostanze che lo inducono ad ampliare la respirazione anche solo parzialmente. Gli attacchi di panico molto spesso insorgono così.
(…)Grazie all’esperienza accumulata seguendo centinaia di casi similari, si può sostenere che cause e sintomi degli attacchi di panico verrebbero definitivamente curati se la terapia si incentrasse sulle radici del problema: lavorando cioè per sbloccare la respirazione e non per limitarla o inibirla. Invece di rallentare e ridurre la respirazione intenzionalmente o tramite l’assunzione di farmaci, si dovrebbe riconoscere che proprio essa è il mezzo di cura naturale, e che la guarigione viene dal favorire questo fenomeno. Si deve perciò insegnare al soggetto a respirare affinché egli impari, con appropriati esercizi, a eliminare lo stato di subventilazione causata, ancora una volta, da quella tensione muscolare che la scuola bioenergetica definisce ‘corazza psicosomatica’.”
Sappiamo che gli attacchi di panico sono in aumento e che, secondo l’Organizzazione Mondiale della sanità, ne soffre attualmente circa il 20 per cento della popolazione . Individuato il meccanismo biologico ed energetico e riconosciuto, grazie a Filippo Falzoni, il grande contributo dato dal Rebirthing alla risoluzione di questo disturbo, sembra importante approfondire alcuni aspetti psicologici e ambientali che lo caratterizzano. Nella letteratura medica e psicologica sull’argomento si trovano, infatti, menzionate sia le alterazioni del respiro sia le problematiche relative alla paura in generale e alla paura di morire e al confronto con la morte in particolare, ma, che io sappia, non è mai stato fatto il tentativo di approfondire la relazione che esiste tra i vari fattori che caratterizzano i DAP e di trovare significati più comprensivi, tenendo conto della inseparabilità di corpo e mente/psiche.
Quando questo disturbo viene affrontato, non soltanto con la riduzione farmacologica del sintomo (raramente avviene la sua totale eliminazione, oltre al fatto che si instaura una dipendenza), ma utilizzando metodi come il Rebirthing Transpersonale, l’attacco di panico si rivela come la somatizzazione di un complesso insieme di problematiche, di cui una componente fondamentale risulta essere una profonda “insicurezza ontologica”, la presenza del confronto con la morte e quell’area di esperienze chiamate tradizionalmente di “morte e rinascita”.
Nell’ambito protetto di una seduta di respirazione, il soggetto vive consapevolmente i propri sintomi e permette che, attraverso il respiro e l’energia attivata dal respiro, si manifestino completamente sia i disturbi psicosomatici sia i blocchi e le emozioni a essi connessi. Si registra, allora, molto frequentemente l’emersione di ricordi traumatici relativi sia alla propria nascita biologica sia, in generale, a tutte quelle esperienze stratificatesi nel tempo che hanno una connotazione di paura esistenziale connessa a un cambiamento di situazione o a una trasformazione dello stato di coscienza. Troviamo spesso, associati a questi vissuti, il rifiuto dei propri limiti e fantasie “eroiche” su se stessi uniti al sentimento di inadeguatezza, il pensiero della morte e la paura di morire, pensieri catastrofici e pessimismo, con le conseguenti risposte difensive di bisogno esasperato di controllo, percezione del mondo come ostile e minaccioso, impossibilità a lasciarsi andare, permanente stato di stress e di tensione psicofisica.
Il confronto con i contenuti inconsci, la disidentificazione da essi e la successiva integrazione porta non solo alla scomparsa dei sintomi, ma a una riorganizzazione e armonizzazione della personalità, a un nuovo equilibrio tra mente e corpo e al recupero del contatto con la dimensione più profonda dell’essere, il Sé, osservatore e testimone della personalità psicofisica, che viene percepito, al tempo stesso, come fondamento e come scopo del nostro essere nel mondo.
Le tradizioni spirituali orientali insistono nell’insegnare che la nostra sofferenza è causata principalmente dall’illusione e dall’ignoranza che ci impediscono di vedere la realtà come è veramente. Avvolti dal velo di maya delle nostre false percezioni, noi ci consideriamo individualità separate, con una nascita e una morte definite nel tempo, aggrappati al nostro corpo, agli oggetti, alle persone, al nostro passato e al nostro futuro senza comprendere che una legge fondamentale dell’universo è il cambiamento e l’impermanenza di tutti i fenomeni materiali, vitali e mentali che incessantemente emergono e scompaiono cambiando forma.. Fluire con la Vita e con la Realtà, essere consapevoli, significa essere nel presente, accettare ciò che è e svelare a noi stessi quello che, sotto il continuo cambiamento, permane immutato, oltre tutte le dualità concettuali e oltre il tempo e lo spazio. Questo implica inizialmente una riunificazione di mente e corpo, una “discesa” dell’io disincarnato identificato con il “pensiero” e i suoi meccanismi nel corpo, un mettere radici nella realtà del qui e ora.
Non è casuale che gli attacchi di panico, insieme alla depressione, siano un disturbo così diffuso nelle società occidentali attuali, dove l’accelerazione dello sviluppo tecnologico, la globalizzazione, la minaccia ecologica, il contatto ravvicinato con altre culture, lo sconvolgimento delle tradizionali “identità” maschile e femminile, la crisi della famiglia tradizionale ha fatto vacillare o crollare molti punti di riferimento sociali, culturali e psicologi. Un aspetto fondamentale di quanto avvenuto in questo secolo e soprattutto negli ultimi cinquant’anni, si riferisce al cambiamento del significato attribuito all’individualità. Gli anni 60 hanno tolto di mezzo, come sostiene Alain Ehrenberg (in La fatica di essere se stessi, Einaudi 1999) “pregiudizi, tradizioni, ostacoli, limiti, confini che strutturavano la vita collettiva…siamo ormai emancipati nel senso proprio del termine”. Questa emancipazione “ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posto a poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento. … Il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento. E ciò induce a porre in altri termini la questione dei limiti normativi dell’ordine interiore: la contrapposizione tra il permesso e il vietato tramonta per far posto a una contraddizione lacerante tra il possibile e l’impossibile”. Scrive ancora Ehrenberg: “Noi viviamo oggi con questa certezza e questa verità, che ognuno dovrebbe avere la possibilità di forgiarsi da sé la propria storia invece di subire la propria esistenza come un destino. … Tale dinamica alimenta i valori dell’indeterminazione, accelera il processo di dissoluzione della permanenza, allarga la compagine dei punti di riferimento per scompaginarla al tempo stesso. L’uomo senza qualità, di cui Musil ha delineato il ritratto, è l’uomo aperto all’indeterminato, l’uomo che si spoglia gradualmente di ogni forma di identità imposta e strutturata dall’esterno. … L’individuo che, riscattato dalla morale, si forgia da sé e tende verso il superumano (agire sulla propria natura, oltrepassarsi, essere più che sé) è la realtà di oggi, ma è un individuo che invece di possedere la forza dei demiurghi, è intimamente fragile, manca di essere, è stremato dal suo stesso essere sovrano e se ne lamenta”.
La nostra visione della coscienza si basa sulle teorie evoluzionistiche integrali di Ken Wilber, di cui abbiamo esposto il pensiero in molti altri scritti. Nell’ambito relativo all’evoluzione culturale dell’umanità, Wilber utilizza il modello di Spiral Dynamics. Anche di esso abbiamo parlato in altri scritti, ma lo riassumiamo brevemente. La teoria di Spiral Dynamics, basata sul lavoro di Clare Graves, è stata sviluppata da Don Beck e da altri. Si tratta di una mappa dell’evoluzione della coscienza e della cultura dell’umanità che inizia 100.000 anni fa e include otto livelli o meme di diverso colore. Questi meme sono sistemi di valori o visioni del mondo che si sono evoluti nel tempo. Il più antico è il meme beige (arcaico/istintuale) che si riferisce ai primi gruppi umani. Attraverso il porpora (magico/animistico), il rosso (magico/mitico), il blu (mitico/autoritario), l’arancione (razionale/scientifico), il verde (multiculturale/ post-moderno) si arriva ai livelli più elevati che stanno appena emergendo, il giallo (integrale) e il turchese (olistico).
Alla luce di questa concezione, dovremmo considerare i cambiamenti descritti da Ehrenberg come una tappa evolutiva necessaria di emancipazione dalla presa del “collettivo” sulla nostra coscienza, un passaggio faticoso e nemmeno generalizzato, o concluso, di passaggio dai meme arancione e verde ai meme giallo e turchese, la visione del mondo integrale e olistica. L’identità personale non si costruisce più sul binomio tra permesso e vietato, la fase precedente della “nevrosi” freudiana, come dice Ehrenberg, ma nella solitudine della difficile ricerca della nostra identità, della nostra vera natura, tra infiniti destini possibili; la scoperta, tra infinite possibilità, della nostra “necessità”, la redefinizione di valori morali su nuove basi. Paradossalmente l’ipertrofia dell’individualità, del soggetto, l’ego, affrancato dai vincoli delle proibizioni collettive e completamente libero di scegliere, arrivata alla sua estrema espressione scopre l’ombra regressiva e terrificante che è il desiderio di fusione e di ritorno all’irresponsabilità, poiché come dice Alan Watts, si trova immerso totalmente nel paradosso di un “doppio legame”: la libertà illimitata è impossibile per l’ego, è prerogativa del Sé e l’ego si trova completamente destabilizzato.
La questione, in realtà, è che questo sviluppo, nel suo svolgimento, ha subito alcune distorsione patologiche (avviene negli individui e anche a livello collettivo), negando e rimuovendo aspetti della realtà, invece che trascendendo e integrando. Il soggetto è un olone, la coscienza è un olone, cioè sempre tutto e parte nello stesso tempo. L’io ipertrofico, onnipotente e autodeificato, rifiuta di essere anche parte, parte di una rete d’interessere, che ha radici nell’Universo, che è sempre se stesso e non se stesso, se stesso e altro. Il passaggio dalla visione del mondo razionale e post-razionale (il livello 5 nel modello di evoluzione della coscienza di Wilber e i meme arancione e verde) al fulcro successivo, il fulcro 6, il pensiero sistemico, integrale, esistenziale (meme giallo e oltre), riunifica mente e corpo, mente e natura, maschile e femminile e tutte le dualità, e permette a questo io terrorizzato dalla sua stessa consapevolezza di trovare risposte alla sua angoscia, nella comprensione della inesistenza della separazione tra soggetto e oggetto, tra l’io e l’ambiente, tra l’io e il mondo, tra ragione e natura. Accetterà l’impossibilità del controllo e inizierà a sentirsi parte di un flusso ininterrotto di essere e divenire. Trascende e include il suo passato evolutivo individuale, familiare, collettivo, fisiosfera e biosfera e tutta la faticosa marcia della coscienza, della noosfera (a livello individuale: corpo, emozioni e mente), ristabilisce i nessi e le interrelazioni. Solo così la sua individualità e identità non soccomberà sotto il peso, impossibile da sostenere, di una libertà male interpretata e falsa e sarà capace di riprendere il cammino evolutivo verso più elevati livelli di coscienza, dando nuovi significati al bisogno di responsabilità, necessità, destino.
Gli attacchi di panico, come la depressione in altra forma, possono assurgere a simbolo del disagio provocato da questo momento difficile di transizione che è attraversato da molti, nelle società tecnologiche e democratiche. Appaiono come l’esasperazione di un’affermazione disperata del nostro corpomente che reclama la sicurezza e la protezione in un’epoca dove domina l’insicurezza, e dove ci viene richiesto di assumerci la responsabilità in prima persona di tutto ciò che avviene, come se dovessimo diventare demiurghi onnipotenti o soccombere sotto il peso del fallimento. E’ la risposta sbagliata a un problema sbagliato, un doppio legame. Ci affanniamo a rispondere, mentre dovremmo respingere al mittente il dilemma paradossale. Il grido spaventato, rimasto soffocato per anni sotto montagne di rimozioni e di repressioni, esplode quando le vicende della vita ci obbligano a confrontarci, comunque, con l’ineluttabilità del cambiamento, con la fragilità della nostra esistenza, con l’apparente assurdità della morte, con il desiderio di continuare a vivere situazioni e vicende che devono essere superate e trascese e ci accorgiamo che la falsa idea di noi stessi e del mondo vacilla pericolosamente. Ma se la perdiamo cosa ci rimane?
Così ancora rifiutiamo, neghiamo in un’estrema contrazione psicofisica che ci toglie il fiato, ci irrigidiamo in un “no” disperato. E crediamo che sia corretto farlo, perché siamo offuscati e confusi da false credenze, da schemi mentali fallaci, da visioni del mondo scorrette e irreali, da illusioni e fantasie. Il “collettivo”, società, cultura e religioni, nella loro generalità, sono, naturalmente, espressione della visione del mondo “media” dominante e anche delle visioni più regressive, quindi non solo non ci aiutano, ma anzi continuano ad alimentare il paradosso in modo da mantenere in piedi l’edificio sociale: farci consumare sempre di più, imporci modelli di vita stereotipati e conformistici o incrementare paure e sensi di colpa per prepararci meglio per un Aldilà mitologico. Una medicina che non accetta la morte e la vive come una propria sconfitta, un utilizzo indiscriminato di psicofarmaci che ci conferma che alla nostra paura e alla nostra angoscia non ci sono vere soluzioni, un’economia che non è al servizio dell’umanità ma che mantiene miliardi di persone nella povertà e nella fame, una concezione dell’essere umano fondata sull’efficienza, l’eterna giovinezza, la bellezza che non deve sfiorire mai, l’immortalità se possibile, ed emargina vecchi, malati e sofferenti… che aiuto ci potranno mai dare.
L’attacco di panico ci rimanda alla nostra estrema vulnerabilità, ai nostri limiti. La paura, la non accettazione del cambiamento, il riproporsi continuo del passato che non riusciamo a lasciare andare, il rifiuto della morte, tutto questo non abbiamo voluto/potuto affrontarlo dentro di noi e si è rafforzato, stratificandosi anno dopo anno, alimentato da piccoli e grandi eventi che abbiamo creduto di aver superato, che abbiamo razionalizzato, rimosso. A un certo punto, un evento della vita, forse neppure troppo traumatico, funziona da catalizzatore e appaiono i sintomi del disturbo: dolore al cuore, come se una mano lo stringesse, dicono alcune persone, senso di soffocamento, vertigine, sudorazione, tachicardia, confusione mentale e una grande angoscia. L’attacco di panico ci dice che non possiamo andare avanti così, che si richiede una “revisione”, dobbiamo tornare a noi stessi e rifondare la nostra identità, come un Io in relazione al Tu, un Io e un Tu rinnovati. Dobbiamo riscoprire che se non siamo onnipotenti, non siamo neanche impotenti, se non siamo perfetti abbiamo però qualità, talenti, capacità, che, se abbiamo limiti come esseri storici incarnati nello spazio-tempo, siamo anche in una relazione di interessere con un tutto oltre il tempo e lo spazio. L’attacco di panico offre l’opportunità di un confronto senza precedenti con noi stessi, con la vita, con la morte e il suo significato, e come possiamo vivere una vita piena, se non vi includiamo la morte che della vita è l’estrema espressione?
Notiamo anche come questo atteggiamento estremo di ipertrofia egoica e di bisogno di controllo che alla fine implode su se stesso, segnala in modo evidente che, a livello individuale come a livello collettivo, non è più possibile continuare con un modello “aggressivo”, tradizionalmente qualificato come maschile, che dissocia e reprime le “qualità” tradizionalmente considerate femminili. La crisi delle stereotipate identità maschile e femminile e la crisi ecologica senza precedenti fanno emergere la necessità di rivalutare e reintrodurre attitudini come l’abbandono, la resa, la ricettività, l’accettazione, il sentimento, la sensibilità, l’apertura del cuore, la comunione, il prendersi cura degli altri e della natura, l’umiltà (che viene da humus, terra) che riconosce e rispetta le leggi dell’universo, contrapposta alla mancanza di misura (l’ubris) e all’arroganza dell’eroe demiurgico, isolato e alienato dalle sue radici, da che si sente il padrone della natura e la distrugge, diventando portatore di morte mentre ricerca disperatamente l’immortalità (sul tema dell’evoluzione della coscienza maschile in relazione al femminile si può leggere il mio scritto Coscienza e Spiritualità … e le donne? su questo sito).
Le nostre paure sono varie e molteplici, ma l’origine vera e profonda di essa è fondamentalmente la paura di morire, la paura del non-essere. Come dice A. Watts, la vera psicoterapia, come i cammini spirituali già fanno, sarà quella che prenderà in considerazione la morte. Perché la rimozione e repressione della morte è la causa non solo dalla nostra ansia e della nostra angoscia più profonde, ma è la ragione del fatto che non abbiamo il coraggio di vivere pienamente: non possiamo accettare pienamente la vita perché con essa dobbiamo accettare la morte. L’una è l’altra, inseparabilmente. In Psicoterapie Orientali e Occidentali Watts scrive: “Nessuno, credo, ha fatto uno studio serio e rigoroso sul grado in cui la paura della morte è implicata nelle nevrosi e nelle psicosi. Ignorarla o allontanarla con una spiegazione vuol dire trascurare la più grande opportunità che ci offre la psicoterapia, perché ciò che la morte nega non è l’individuo, non è l’organismo/ambiente, ma è l’io, e quindi la liberazione dall’io è sinonimo della piena accettazione della morte.” E in L’Audacia di Vivere A. Desjardins afferma: “Osare vivere è osare morire a ogni istante, ma è ugualmente osare nascere, vale a dire superare le grandi tappe dell’esistenza in cui ciò che siamo stati muore per fare spazio ad altro, con una visione rinnovata del mondo, pur ammettendo che ci siano diversi stadi da superare prima dell’ultima tappa del Risveglio. Questo significa essere sempre più consapevoli che a ogni istante si nasce, si muore e si rinasce.”
Se il sesso era il grande tabù dell’800, la morte lo è stato del secolo appena terminato e, con ogni evidenza, lo è ancora oggi, sebbene cominci a essere avvertita da molti la necessità di un cambiamento e, in certi ambienti più sensibili, qualcosa si stia già facendo, penso per esempio all’opera di E. Kubler-Ross e di M. de Hennenzel, al movimento degli hospices e a una nuova attenzione data all’accompagnamento dei morenti. Comprendere e accettare la morte, la nostra come quella di una persona amata, è certamente un compito arduo. Tuttavia, nella nostra cultura è ancora più difficile, perché la morte è il grande “rimosso”, anche se ci circonda a ogni passo, anche se ne sentiamo parlare ogni giorno. Diventare consapevoli della morte è un grande passo nella nostra crescita interiore, vuol dire riconciliarci con chi siamo veramente e con la realtà.
La morte, sia come eventualità che ci spaventa sia come evento con cui abbiamo dovuto confrontarci, è una componente importante degli attacchi di panico, perché è vissuta come la sintesi di tutto quel continente ignoto che sfugge al nostro controllo, quel nemico minaccioso contro cui dobbiamo mobilitare le nostre difese, quel limite estremo che viene posto all’ego e al suo desiderio di onnipotenza, alla nostra illusoria pretesa di essere più forti della rete interrelata di eventi in cui siamo immersi.
L’analista junghiano L. Zoja sostiene che, a livello collettivo, l’ombra di quest’atteggiamento si manifesta nel disprezzo di sé che traspare dalla ciclica previsione della fine del mondo, della recessione economica definitiva, della grande nemesi, e nella diffusione di apprezzati spettacoli che mettono in scena la vittoria delle forze della natura sull’orgogliosa tecnologia umana, mentre a livello individuale l’impossibilità a riconoscere i limiti e la giusta misura porta all’autosvalutazione, al pessimismo, al catastrofismo, alla paura e alla sua somatizzazione (L. Zoja, Nascere non basta, Cortina Editore, 1985). Senza dimenticare l’altro aspetto, di cui parlavamo all’inizio, cioè la possibilità che emerga un desiderio inconscio di fuga dalle responsabilità, diventate troppo pesanti, verso un’arcaica fusione in cui l’individualità si annulla nell’incoscienza (le varie forme di dipendenza per esempio).
Non un Io che raggiunge un livello di coscienza più comprensivo, una personalità integrata che riconosce corpo, emozioni, mente, anima e spirito e si colloca in una relazione più creativa con la realtà, ma un io strutturalmente debole che, frustrato e stressato dal suo sforzo narcisistico di controllo/negazione del mondo e delle sue leggi, si abbandona alla regressione. Anche l’attrazione per la spiritualità orientale, in particolare per il buddhismo, può nascondere una trappola di questo genere. Jack Engler in “Gli obiettivi terapeutici della psicoterapia e della meditazione” (“Le trasformazioni della coscienza”) si riferisce proprio a queste problematiche quando afferma che in molti allievi dei suoi corsi di meditazione nota che il senso di identità e di autostima appare particolarmente disturbato, sia per problemi psicopatologici sia perché stanno semplicemente attraversando fasi di trasformazione della personalità, come gli adolescenti e le persone di mezza età. “L’insegnamento buddhista secondo il quale non si ha né si è un sé durevole viene spesso frainteso nel senso che non si deve lottare con i compiti di formazione dell’identità o con la scoperta di chi si è, delle proprie capacità, dei propri bisogni e delle proprie responsabilità, del modo di entrare in rapporto con gli altri, di ciò che si debba e non si debba fare della propria vita.”
Secondo Alan Watts l’ansia “è la frustrazione di non avere la vita senza la morte, ossia di non riuscire a risolvere un problema che non ha senso. Come Freud disse, l’io è costituito dalla repressione dei Eros e di Thanatos, della vita e della morte, è per questo motivo è la parodia dell’autentica individualità.”
E lo studioso di Freud, Norman O. Brown, nel bellissimo libro – La Vita contro la Morte – scrive: “Paradossalmente, ma inevitabilmente, questa incapacità di morire toglie l’umanità dalla realtà del vivere, che per tutti gli animali normali è allo stesso tempo morire, ne risulta la negazione della vita (repressione) … L’indirizzare la vita dell’uomo alla guerra contro la morte, per la stessa inevitabile ironia, provoca il dominio della morte sulla vita. La guerra contro la morte prende la forma di un interesse per il passato e per il futuro, e il tempo presente, il tempo della vita, va perduto.”
Presento adesso un caso che ho modificato, per ragioni di riservatezza, attingendo parzialmente anche alla storia e alle esperienze di altre persone che si sono affidate al Rebirthing Transpersonale per risolvere il disturbo da attacchi di panico. Si tratta, dunque, di un percorso emblematico che racchiude molti elementi psicosomatici, vissuti, situazioni, esperienze che non sono, ovviamente, sempre tutti presenti e che, inoltre, possono presentarsi con caratteristiche e forme diverse, conformemente alla personalità e alla storia del soggetto.
Marco soffre da dodici anni di attacchi di panico quando viene da me. Prende uno psicofarmaco specifico che allevia i sintomi, è stato anche a lungo in psicoterapia, ma non è soddisfatto perché non si sente “guarito”. Ha ancora dei disturbi, anche se meno intensi di prima, come dolore al cuore con ansia, mancanza di respiro e affanno. Inoltre teme sempre un attacco maggiore quando guida o quando si trova in ambienti affollati o sul lavoro, svolge, infatti, un’attività che lo mette in contatto con molte persone. Tutta la famiglia è condizionata dal suo disturbo. Sentendosi “inadeguato” a causa del suo problema, reagisce chiudendosi in se stesso, comunicando sempre meno. Manifesta anche una leggera depressione. Dorme male, non è mai veramente rilassato. Inizialmente è scettico e negativo circa il rebirthing, pensa che sarà un’ennesima delusione. Comunque ha deciso di provare.
Il disturbo è iniziato subito dopo un cambiamento importante nella sua vita (matrimonio). Durante le prime sedute, il respiro intenso e l’iperventilazione fanno emergere tutte le tensioni e contrazioni accumulate a livello fisico: è come paralizzato dalla testa ai piedi, suda abbondantemente, ha freddo e caldo. Emergono immagini che simbolizzano lo stato di rigidità fisica, un gladiatore in una specie di corazza che lo immobilizza, un fantoccio svuotato di vita, un cadavere. Ma quasi subito riceve un aiuto dalla dimensione transpersonale: vede un essere di luce, un angelo, che gli starà vicino per quasi tutte le sedute e questo lo incoraggia a continuare, lo sostiene e lo aiuta a modificare l’atteggiamento rigido e di controllo. Quanto più riesce a lasciarsi andare, tanto più la “paralisi” diminuisce e cominciano ad affiorare i vissuti.
Emerge il ricordo di un’aggressione subita quando aveva circa dodici anni. Un ragazzo più grande l’aveva immobilizzato contro una porta e l’aveva picchiato. Terrore. Vuole gridare, ma non ci riesce, il grido non esce. Non si era difeso e aveva odiato suo padre che non gli aveva insegnato a reagire in modo appropriato. Non aveva detto niente a nessuno e si sorprende che questo episodio possa essere stato traumatico, perché non lo aveva mai considerato tale. Tuttavia, capiamo nel dialogo che segue la seduta, che quell’evento aveva contribuito a nutrire il suo sentimento di essere un debole, con i compagni, infatti, era timido e si lasciava prevaricare. Nella sua vita questo tema sarà sempre presente, unito al sentimento di valere più di quanto non riesca a dimostrare, sia in famiglia sia nella società. Il padre non lo aveva mai veramente sostenuto nella costruzione della sua identità maschile e aveva contribuito al suo sentimento di inferiorità. M. impone a se stesso un modello molto esigente di performance, è estremamente perfezionista e ansioso circa il giudizio che gli altri hanno di lui. Nella realtà si tratta di una persona con molte qualità e talenti e un mondo interiore molto ricco, ma bloccato dall’insicurezza e dalla paura.In un’altra occasione rivive la morte di un parente che gli era molto caro (un sostituto paterno positivo che lo abbandona troppo presto) e il funerale cui aveva assistito quando aveva sette o otto anni. Da allora non ha mai più potuto assistere a un funerale. Il tema della morte ritorna anche con episodi più recenti. Un altro vissuto molto traumatico e terrorizzante si riferisce a quando era stato sottoposto a una tonsillectomia, all’età di quattro o cinque anni, senza anestesia. Inoltre, i genitori, per evitare di spaventarlo, l’avevano portato dal medico senza prepararlo minimamente a quello che sarebbe successo.
Finalmente in alcune sedute rivive la nascita in modo molto intenso e simbolico. Rivive in particolare la fase della Matrice Perinatale III, che S. Grof definisce “Lotta di morte – rinascita”. E, di fatto, la sua nascita biologica si trasforma in una specie di seduta sciamanica in cui lui dà una nuova vita a se stesso. Un’iniziazione di se stesso per rifondare la sua identità maschile fragile e non integrata che lo lasciava impreparato ad assumersi la responsabilità della propria vita, e che era stata compensata, sotto la spinta dei condizionamenti familiari e culturali, con un modello idealizzato di “virilità”, eroico ed estremamente esigente che lo tiranneggiava senza tregua e che reprimeva gli aspetti femminili della psiche, come la capacità di abbandono, il contatto con le emozioni, la creatività. Tutto doveva essere sotto controllo, come si richiede ai “forti”. Ovviamente, questo aumentava la sua vulnerabilità verso il mondo e la realtà esterna con il suo lato misterioso e insondabile, di cui la morte era l’espressione più terrificante.
Ricordiamo velocemente cosa avviene a quello stadio del parto: ci sono contrazioni uterine e il collo dell’utero, a differenza della fase precedente, è ora dilatato e permette la discesa attraverso il canale pelvico-genitale. Il feto intraprende una lotta feroce per la sopravvivenza mentre prova forti pressioni meccaniche e spesso anche un senso di soffocamento intenso. Le contrazioni uterine limitano l’alimentazione del sangue al feto. In questa fase possono intervenire molti altri fattori che riducono ulteriormente l’afflusso di sangue e provocano episodi di soffocamento. La MPB III, dice Grof, costituisce un modello empirico di grande ricchezza e complessità. Oltre al ricordo dell’esperienza di lotta per la sopravvivenza nel collo dell’utero, si attivano molti fenomeni archetipici.
A differenza della matrice precedente che era “senza via d’uscita”, qui il soggetto non è impotente e paralizzato, inoltre non è semplicemente vittima, ma lotta, si muove, potremmo dire che manifesta una certa aggressività per vincere la battaglia per la vita. Il conflitto che viene vissuto è quello della morte-rinascita. I ricordi dei Sistemi di Esperienza Condensata (COEX) che emergono sono quelli legati a situazioni di pericolo in cui la sopravvivenza è stata minacciata, avventure esaltanti ma rischiose, ecc.
Vediamo come M. racconta la sua esperienza: “Sono in una specie di cono, un tunnel, provo un’enorme pressione sulle orecchie e vedo un pallina blu che entra ed esce dalle due orecchie, un male fortissimo, c’è una porta in lontananza, devo arrivare a quella porta, ho paura di non farcela, devo aprirla, mi sento impotente, sento un risucchio, come un vortice che stritola e vedo una luce terribile, vedo una successione di immagini di animali feroci, un circo e io sono un gladiatore, mi ero già sentito un gladiatore, anche adesso mi sento immobilizzato. Mi sento morire… C’è un bambino morto. Adesso vedo un bambino morto, io sono una specie di guaritore, uno sciamano.. non so. Ho al collo una collana di unghie di tigre. Sfilo un’unghia dalla collana, è lunga e molto affilata, mentre la tengo in mano faccio la respirazione a bocca a bocca al bambino e lo gonfio, lo gonfio fino a farlo diventare grande come me. Adesso uso l’unghia come un bisturi, apro il corpo dalla gola alla pancia, tolgo tutti gli organi interni, mi sento calmo. So che quello che sto facendo è giusto, va fatto. Una volta svuotato degli organi, entro io in quel corpo, mi adagio sulla schiena e richiudo cucendo con l’unghia come fosse un ago. Dentro tutto è di un bellissimo blu, non so se sia acqua o cielo. A un certo punto ho la netta sensazione che sto morendo, ma non sono spaventato. Chiuso lì dentro contengo tutto l’universo, mi vedo da fuori e mentre guardo, il “me” dentro il corpo apro l’involucro con l’unghia e comincia a uscire il blu, un fiume di blu, prima denso, poi sempre più fluido e fluisce, fluisce, è il cielo, è l’universo stesso che fluisce, è l’oceano … e nel blu ci sono delfini e gabbiani, alberi, stelle, galassie, fiori, altri animali. Oh dio! E’ meraviglioso! Mi sento libero e vivo. Una pace e una gioia infinite mi pervadono. Una vera estasi.”
Questa era la nona seduta e, anche se c’erano già stati notevoli miglioramenti, segna la vera e propria guarigione. La seduta seguente insiste ancora sul tema della morte e della nascita. Rivive il funerale di una persona amica avvenuto da poco e a cui questa volta è riuscito a partecipare. Poi si vede piccolo al centro di un cerchio fatto di pietre in una tenda indiana, è un neonato con il pannolino. La tenda e l’ambiente all’intorno sono blu. Anche se è un neonato capisce tutto come un adulto, intuisce che si tratta di una specie di rito, sente una musica, una nenia. E’ il rito per la nascita del bambino. Di nuovo il corpo del bambino cresce e diventa grande come è lui adesso, la tenda diventa sempre più calda, prova malessere, sussulta, si torce. Il bambino ha al collo la collana di unghie, con un’unghia taglia la tenda e scivola fuori, di nuovo si riversa fuori il liquido blu. Si ritrova in un luogo dove c’è una vallata verde in lontananza. C’è una montagna. Lui è la montagna. Una voce dentro dice: non morirai mai. Di nuovo un senso profondo di benessere, pace, gratitudine, comprensione. Sa che è guarito.
Questo caso esprime, credo, in modo molto chiaro l’intreccio dei molti fattori che concorrono, in molti casi, a generare i DAP. Questi elementi, come dicevo, non sono sempre tutti presenti, non emergono necessariamente con la stessa intensità, né sempre sono accompagnati da vivide immagini simboliche. Ma sono permanenti i temi di fondo, che stiamo analizzando, uniti alle manifestazioni fisiche dei sintomi da panico con successivo scioglimento e superamento.
Il primo attacco si manifesta dopo un cambiamento importante nella vita di M. che funziona da attrattore per l’acutizzarsi di antiche paure e complessi. Sposarsi vuol dire assumersi un’enorme responsabilità verso gli altri, ancor più dopo la nascita dei figli. Non si sentiva pronto. Si manifesta il senso di inadeguatezza e di inferiorità non soltanto come espressione di incapacità, timidezza, difficoltà nelle relazioni sociali, ma come “paura di vivere”, per la generale vulnerabilità dell’essere umano di fronte all’ignoto, all’imprevisto, a quello che non si può controllare e soprattutto di fronte alla morte. La paura lo immobilizza, lo mantiene contratto e rigido, è estremamente perfezionista e cerca di non lasciare niente al caso e allo stesso tempo di non dare adito a critiche o giudizi negativi su di sé, mentre si sente incapace di reagire esprimendo quello che pensa, di farsi valere e questo provoca una notevole accumulo di energia aggressiva repressa.
Gli elementi importanti che caratterizzano le sedute e i colloqui si riferiscono, dunque, a un bisogno di ridefinire e ampliare la visione di se stessi e del mondo che è troppo angusta, rigida e soffocante e non permette nessuna ulteriore evoluzione. E’ stritolato dal dilemma di sentirsi fragile e vulnerabile dentro (avendo represso la sua genuina vulnerabilità), mentre vorrebbe essere un eroe perfetto, demiurgico, che controlla il mondo e non subisce nessun limite (la sua identità non si è costruita in modo armonico tra il riconoscimento e il sostegno alle sue capacità e potenzialità, alla sua “unicità”, e l’accettazione delle limitazioni e della vulnerablità propri di ogni essere vivente immerso in una rete di “tu”, in una rete di “interessere”: maschile e femminile, o, usando i termini di Wilber, agency e communion, individualità e intersoggettività). Per rimettersi in cammino con fiducia e positività, M. deve regredire per completare fasi di sviluppo precedenti rimaste incompiute. Ha bisogno di un’esperienza di morte e rinascita per sperimentare che morire non vuol dire “cessare di esistere”, ma trasformarsi; per capire che cambiare, lasciar andare il passato, idee e concetti falsi, bisogni regressivi di protezione, non vuol dire morire, ma crescere ed evolversi. Dentro di sé M., che è a digiuno di letture psicologiche, antropologiche o mitologiche trova una grande ricchezza di risorse energetiche e simboliche per portare a termine il suo compito.
Le esperienze di morte-rinascita fanno parte del bagaglio dell’umanità che ha sempre avvertito come il confronto con la morte fosse necessario per accedere a un più elevato livello di coscienza. Dai viaggi sciamanici, ai rituali dei Misteri ellenistici, ai cammini spirituali e contemplativi, l’esperienza della morte simbolica è sempre stata considerata uno strumento potente di trasformazione e di crescita.
Rivivere la propria nascita è certamente un’esperienza molto intensa e fondamentale per risolvere un certo numero di disturbi psicosomatici. Come ho ampiamente esposto nel brano Il trauma della nascita e il rebirthing pubblicato su questo sito, la nascita biologica, soprattutto nella MPIII, contiene, appunto, una forte connotazione di “lotta morte-rinascita” e come tale è una componente del complesso di esperienze che si riferiscono a questo tema, non solo perché il feto vive una vera propria minaccia alla propria sopravvivenza, ma anche perché la nascita è un passaggio dal fulcro 0 al fulcro 1, cioè un primo e molto precoce passaggio da un livello di coscienza a un altro (Wilber chiama fulcro un passaggio dell’Io da un livello di coscienza a un altro). Ogni passaggio di fulcro, nel procedere dell’evoluzione della coscienza individuale e collettiva degli esseri umani, implica il movimento triplice descritto da Wilber sulla base del lavoro di molti psicologi evolutivi e sulla base della teoria evoluzionistica dei sistemi (poiché anche la coscienza è un olone e segue i principi che regolano gli oloni). Questi tre passaggi sono:1) identificazione con un livello, 2) disidentificazione e trascendenza (quindi “morte” a quel livello), 3) identificazione con il nuovo livello e inclusione del precedente (e di tutti i precedenti). Il movimento è sempre trascendi e includi.
Negli attacchi di panico, la regressione al momento della nascita e la risoluzione di tensioni e blocchi psicofisici connessi a quell’evento, si presentano come un aspetto di un nodo molto più complesso di problematiche che si collocano, a mio avviso, essenzialmente ai fulcri 4 (convenzionale), 5 (razionale) e 6 (integrale).Questo perché, come abbiamo mostrato nel brano già citato sul Trauma della Nascita, l’esperienza di morte e rinascita non è solamente quella connessa alla nascita biologica (come S. Grof sembra sostenere), ma si ripropone a ogni cambiamento di fulcro di coscienza, e anche quando bisogna tornare indietro per completare l’integrazione di aspetti dei fulcri precedenti da cui non ci siamo disidentificati e che non abbiamo trasceso. Questo viene spesso vissuto simbolicamente come “nascere di nuovo”, perché la ripresa del cammino evolutivo, grazie all’eliminazione degli ostacoli che bloccavano l’energia creatrice, è un tornare alla vita. Allora si attiva anche il ricordo della nostra prima nascita, quella biologica. Sottolineiamo che, anche se un confronto con la “morte-rinascita” dell’io a qualsiasi livello di coscienza è un’esperienza potente e trasformativa, il fulcro 6, livello esistenziale/integrale, è quello più importante in questo contesto, perché a questo punto la coscienza comincia a decostruire la sua identità esclusiva con il corpomente. Emergono quindi più facilmente quelle barriere che costituiscono la maggior parte delle dissociazioni di vissuti traumatici (rimozioni, repressioni) che si sono costituite al livello del corpomente grossolano e vitale/emotivo. Quindi è soprattutto a questo punto che si tende a diventare più consapevoli di tutte le problematiche irrisolte del passato che funzionano da ostacoli allo sviluppo successivo e da attrattori regressivi che impediscono ogni ulteriore crescita.
Riepiloghiamo brevemente le tappe che più ci interessano dello sviluppo della coscienza secondo il modello di Ken Wilber.
Il fulcro 3, io mentale e concettuale, mente rappresentativa o, con la terminologia di Piaget, conoscenza pre-operazionale. Verso i quattro/sette anni, dopo le immagini e simboli, cominciano ad apparire i concetti. Il bambino inizia a entrare nel mondo linguistico, nella noosfera. A questo stadio il bambino, se tutto è andato bene, ha integrato i livelli precedenti, l’io fisico/corporale e l’io emozionale. Con l’emersione dell’io mentale, è possibile anticipare il futuro, avere preoccupazioni e ansietà, e anche ricordare il passato, avere sensi di colpa e rimorsi. La mente concettuale esiste in un “mondo astratto di pensieri” e per questo può reprimere e dissociare gli aspetti anteriori, gli impulsi che vengono dal corpo e le emozioni. Invece di differenziarsi, trascendere e includere, reprime. La patologia di questo livello è la nevrosi (la mente reprime corpo ed emozioni). La visione del mondo corrispondente a questo livello è quella mitica, che lascia il posto a quella magica del livello precedente. Il bambino si rende conto che la magia non funziona, non può comandare il mondo in modo magico e onnipotente, ma pensa che forse qualcun altro può farlo: dei, demoni e fate che possono sospendere le leggi della natura. Il potere egocentrico lascia il posto alla preghiera e al rituale egocentrico. La visione del mondo mitica inizia con la mente rappresentativa e continua anche nel livello successivo, la mente regola/ruolo per poi essere trascesa dalla mente razionale, che realizza che per cambiare qualcosa della realtà, devi farlo tu stesso.
Il fulcro 4 è la mente regola/ruolo, chiamata da Piaget conoscenza concreta-operazionale (dai 7 ai 14 anni). L’io è capace di formare regole mentali e di assumere ruoli sociali. Il bambino comincia a rendersi conto che il suo punto di vista non è l’unico al mondo. La linea evolutiva morale passa dal preconvenzionale al convenzionale, si assumono i comportamenti collettivi dominanti, si è conformisti. Rispetto ai tre stadi precedenti, qui c’è una profonda trasformazione. Le mie preoccupazioni ora si estendono al gruppo, ma non oltre. Ci si identifica con la propria famiglia, tribù, mitologia, ideologia e chi non ne fa parte è il nemico. A questo livello troviamo un forte etnocentrismo, che Wilber chiama “appartenenza mitica”. La visione del mondo è ancora mitologica. L’identità dell’io è sociocentrica, deve rappresentare dei ruoli ed è qui che si colloca la “patologia del copione”. Quando ci sono problemi nel superamento di questo livello, rimaniamo prigionieri di false e distorte maschere sociali, di copioni crudeli che affermano “Sono un fallito”, “non combinerò mai niente di buono”.
Tra gli undici e i quindici anni emerge il fulcro 5, la mente operazionale-formale. Mentre nel precedente livello, operazionale-concreto, si può operare solo sul mondo concreto, questo può operare sul pensiero stesso. Per la prima volta si possono fare ipotesi: cosa succederebbe se…, si aprono mondi ideali, nuove possibilità. E’ l’adolescenza, in cui diventa possibile l’introspezione; si comincia a giudicare i ruoli e le regole assunti prima, la morale diventa postconvenzionale, si passa da un io sociocentrico a un io centrato sul mondo, universale. Il mondo stesso è il mio gruppo, e allora si inizia a pensare che tutti gli individui devono avere accesso allo stesso rispetto e alle stesse opportunità senza differenze di sesso, credo, razza, credenze, ecc. Dal punto di vista psicologico, quando si supera il livello sociocentrico con la sua morale convenzionale e i ruoli e le regole predefinite, inizia il problema dell’identità. “Chi sono Io, cosa voglio dalla vita, qual è il mio posto?” Erikson chiama questa fase “crisi di identità”, che è una tipica patologia dell’adolescenza.
Lo stadio 6 è chiamato da Wilber visione logica o pensiero integrativo, che opera sintesi e trascende i dualismi. La mente operazionale-formale (corrispondente al pensiero razionale moderno) possedeva già la capacità di sintetizzare e integrare, ma esisteva ancora una tendenza a separare, analizzare, una logica basata sulla dualità e l’alternativa o/o. Con la visione logica le parti sono messe insieme e si coglie una rete di interazioni. Nel Quadrante Sociale di Destra che si riferisce al mondo oggettivo (per la figura che riproduce i 4 Quadranti clicca qui), lo stadio 6 produce la Teoria dei Sistemi; nel Quadrante dell’interiorità e della soggettività (Alto/Sinistra) produce una personalità integrata, simbolizzata dal centauro che rappresenta l’integrazione di mente e corpo e corrisponde a un io integrato in una rete di responsabilità e servizio. Dice Wilber citando John Broughton: “a questo livello mente e corpo sono entrambi sperimentati come un Io integrato”. L’io è cosciente sia del corpo sia della mente come sua esperienza. Non è più la mente che osserva il mondo, ma l’io osservante osserva la mente, il corpo e il mondo. Questo è anche chiamato livello esistenziale. A questo fulcro 6, l’io identificato con il corpomente sta morendo. Non ha più appigli e stampelle da nessuna parte: né la visione magica o mitica, né la razionalità gli sono più d’aiuto. Accettare la propria mortalità, i propri limiti è necessario per trovare il “proprio essere nel mondo”.
Gli esistenzialisti hanno realizzato questo io autentico, hanno analizzato le menzogne e le illusioni che rendono impossibile l’autenticità. Mentiamo circa la nostra mortalità e la nostra finitezza costruendo simboli di immortalità, mentiamo circa la nostra responsabilità nelle scelte che facciamo, presentandoci come vittime della famiglia, della società, del destino, del nemico. Mentiamo perdendo la ricchezza del presente perché siamo sempre macerati nei sensi di colpa legati al passato o nell’ansia riguardo al futuro. Non siamo autentici perché rifiutiamo la responsabilità di essere fino in fondo noi stessi senza maschere e infingimenti. Perdute tutte le consolazioni illusorie, se non riconosciamo ulteriori fasi di sviluppo, cadiamo come gli Esistenzialisti, nell’angoscia e nella disperazione dell’assurdo e della mancanza di significato di noi stessi e dell’universo.
Questa è la patologia del livello esistenziale, poiché non si è ancora nel transpersonale, ma non si è più ancorati al personale. L’io che si è evoluto fino a questo livello, come dicevamo all’inizio, per non regredire a più rassicuranti fasi precedenti (anche perché ogni fase trasformativa fa emergere in modo più pressante i nodi irrisolti degli altri fulcri) e non bloccarsi in un sentimenti di impotenza e di terrore, deve passare a una nuova visione del mondo, deve aprirsi a un nuovo livello di coscienza dove l’identificazione con l’ego viene superata completamente e il senso di identità personale entra in una nuova relazione con il Tu. Ed è qui che si colloca l’esperienza più pregnante di morte-rinascita che può aprire alle fasi evolutive successive che sono ormai quella della sfera transpersonale e spirituale: olistica o psichica iniziale (il meme turchese), psichica, sottile, causale, Assoluto.
M. si colloca al fulcro 5, razionale postconvenziale, con problemi irrisolti al livello 3, 4 e 5, prima emersione del livello 6 e apertura verso esperienze di vetta transpersonali. E’ importante tenere presente che quando si descrivono i processi della psiche umana è inevitabile cadere in schematizzazioni troppo semplificatorie. In ogni individuo si accavallano e intrecciano molti livelli e linee evolutive, viviamo contemporaneamente su molti piani e qualsiasi schema o mappa va sempre considerata come approssimativa e comunque riduttiva della ricchezza immensa che nessun strumento analitico razionale potrà mai cogliere integralmente.
Fatta questa premessa, continuiamo il nostro discorso. Nel caso di M. la nascita biologica, oltre al valore in sé come evento che, rivissuto, porta al superamento di molte tensioni psicofisiche, è anche l’occasione per inscenare un vero e proprio rituale iniziatico di morte e rinascita in cui M. adulto “opera” sulle sue parti infantili per farle crescere e per integrarle. In qualche modo opera su se stesso quella iniziazione al mondo adulto che non ha mai realizzato nella vita. Il bambino non ha superato una serie di paure legate al mondo esterno che può essere minaccioso e mettere a rischio la sua sopravvivenza, rimane traumatizzato dal confronto precoce con la morte di una persona cara e nessuno lo aiuta a capirla e accettarla, crede di essere stato abbandonato nelle mani di un dottore “carnefice” che forse lo ucciderà. Poiché la famiglia, e il padre in particolare, non lo hanno aiutato a costruirsi una positiva immagine di sé e una sufficiente autostima, è ancorato a idee menzognere su se stesso circa la propria inadeguatezza e si porta dentro un senso di fallimento che il DAP non fa che confermare e acuire. Il suo tentativo di mettere in discussione la visione del mondo e di se stesso in cui è immerso e di riconoscere/rifondare il senso di sé, non è stato accompagnato da una consapevole ricerca e sostituzione di nuovi valori e significati. Così si trova in mezzo al guado ad affrontare la vita con una “mancanza di essere” e un fardello enorme sulle spalle, in una solitudine terrificante, non più inserito in una rete di interessere.
Come negli antichi rituali iniziatici che implicavano la morte simbolica e la rinascita a una nuova vita e a una nuova identità, M. partorisce di nuovo se stesso dopo essersi guarito dalle ferite che erano rimaste aperte nel corso del suo percorso di sviluppo e nello stesso tempo passa da una visione puramente razionale, che lo aveva dissociato dal corpo e dalle emozioni, all’inizio dello stadio esistenziale con una maggiore integrazione di corpomente e con una apertura alla dimensione transpersonale. Con la comparsa dell’angelo fin dalla prima seduta, sorprendente anche per lui che sostiene di avere una visione assolutamente razionale e scettica sulla realtà, dimostra che la sua sensibilità ricettiva, l’intuizione e la creatività sono molto più sviluppate di quanto egli stesso non sia disposto inizialmente a credere. Inoltre, la progressiva capacità a lasciarsi andare e accogliere i messaggi che vengono dalla profondità del suo essere, a fidarsi e affidarsi, senza controllare, trattenere, ancorarsi alla sofferenza, come unica certezza e come coazione a ripetere autodistruttiva, gli permettono di beneficiare al massimo di tutte le esperienze, sensazioni, emozioni, immagini, insight che il rebirthing gli permetterà di vivere con intensità ed efficacia terapeutica. Si colloca qui la maggiore integrazione delle componenti maschili e femminili della sua psiche che lo porterà anche a riprendere attività artistiche che aveva completamente abbandonato.
Possiamo dire, sintetizzando, che il problema fondamentale di M., come di molte persone, donne e uomini della nostra società che non necessariamente sono soggetti ai DAP, ma che comunque esprimono un livello elevato di sofferenza psicofisica, era quello di riprendere il cammino evolutivo della coscienza, dopo il superamento di blocchi energetici e problematiche psicosomatiche connessi alla necessità di ridefinire la propria identità in relazione al mondo, raggiungendo una nuova comprensione in cui libertà e responsabilità, scelta e destino, possibilità e limiti, io e tu fossero coniugati in un modo nuovo e creativo. Questo ha implicato la necessità di tornare indietro a vari momenti del suo percorso evolutivo e, soprattutto, un confronto con la paura e con la morte. L’iniziale comprensione del funzionamento dell’ego e della mente come costrutto sociale e collettivo e il contatto con il Sé più profondo gli ha permesso di assaporare cosa significhi essere soggetto della propria vita immerso nello stesso tempo in una Vita più ampia, in cui accettare ciò che è diventa la più grande libertà.
Info
La Dott.ssa Giovanna Visini riceve su appuntamento nel suo studio a Milano in via G.B. Moroni, 22.
Per informazioni sulle sedute di Rebirthing Transpersonale scrivere a giovannavisini@tiscali.it oppure compilare il modulo di contatto su questa pagina.